Fiotti di brufoli, adrenalina e risate entrano in Questo piccolo grande amore, papà (più che mamme) e bimbi mano nella mano corrono verso Space Chimps discutendo se i popcorn li prenderanno all’intervallo o si possono avere già ora. Teste bianche e discorsi impegnati salgono le scale verso The Reader. Sospesi tra qualcosa che non siamo ancora e qualcosa che non siamo più, entriamo a vedere il film di Stephen Daldry.
Ricostruzioni. Epoche, costumi, luce. Modi e mode. Impeccabile. Diciamo che ormai uno se lo aspetta, determinati film hanno un budget che garantisce un buon lavoro formale. Ma la prima ora – quasi – se ne va senza che accada veramente nulla di importante. Un ragazzo vomita per la strada e viene soccorso da una signora. Tra i due nasce una relazione. Il resto è televisione e banalità, e uno si accoccola in poltrona sperando che qualcosa accada e facendosi coraggio con il pensiero dei film che stanno proiettando nelle altre due sale.
Ma il problema secondo me è profondo. Perché mi metto a pensarci e a parte pochissime eccezioni, non ricordo film d’epoca che avessero sul serio uno sguardo. Nel senso, meraviglioso C’era una volta in America, ma dove finisce la regia vera e propria in tutti gli altri casi, dove e quando si necessita di uno sguardo vero, di un punto di vista intenso e potente, come dovrebbe sempre avvenire ? Si esaurisce – mi pare – troppo spesso nello sforzo di ricostruire, di rendere credibili quegli anni. E quasi sempre accade che il pubblico di quei film – le teste bianche soprattutto, poiché ne hanno buon diritto – riducano il loro commento al fatto che effettivamente si sentiva il sapore di quegli anni o viceversa.
E’ possibile fare un film d’epoca che non sia solo un’operazione da museo ? Non lo so e francamente mi interessa poco come filmaker perché i film d’epoca sono costosissimi, e l’unico film d’epoca che potrebbe permettersi un filmaker come me sarebbe ambientato in un’era post-atomica, nella quale fossero rimasti un uomo una donna e un secchio. Detto questo, il film a un certo punto, verso il midpoint del secondo atto, dà il primo segno di vita. Una cadenza narrativa forte, nella quale il protagonista rientra in contatto con la donna che ha amato e la vede sotto una luce nuova.
Il film comincia qui. Ma anche Giada conviene che cominciare un film dieci minuti prima dell’intervallo pare brutto. Inizia qui perché nella prima ora non c’è alcun conflitto centrale, è tutto un lunghissimo establishment sulla scoperta del sesso e dell’amore e sulla vita di quegli anni. Poi finalmente accade qualcosa, la donna viene processata perché partecipe con responsabilità dell’orrore dei lager. Lui la osserva dal pubblico, e questo è il momento migliore del film: farà qualcosa, rischierà qualcosa per aiutarla ? Si farà vivo con lei ? Finalmente una zona di conflitto centrale ed equilibrato. E tuttavia, minato da un equivoco.
La storia si presenta chiaramente come la storia di lui, ma l’ostacolo grosso, la vicenda importante, è la vicenda di lei. Purtroppo lo si vede molte volte: quando il centro focale del film non coincide con il centro drammatico, non funziona mai. Il film si apre: il dramma vero va in una zona d’ombra e sotto i riflettori non succede niente. E’ il problema di The Reader, ottima ricostruzione – forse – di una storia che non c’è.
Una presenza luminosa, però, è quella di Kate Winslet. Sono passati anni da Titanic, la bellezza splendente di allora è trascorsa e in parte fatta trascorrere dal trucco volontario – e non sempre felice – del film. E come tutte le più grandi attrici, la Winslet sa invecchiare nella vita con intelligenza e con grazia. I tratti sono più duri e il controllo della sua recitazione è assoluto. E’ stata capace di entrare veramente anima e corpo in un modo di fare cinema e in un mondo lontanissimi. Su di lei si vedono le durezze, le costrizioni, la repressione. Niente di descritto, niente di facile. Dal primo all’ultimo momento è presente al proprio personaggio con una luce tutta speciale che fa di lei l’unico vero faro, l’unica perla autentica di questo film.