The Children Act comincia da dentro. Dalle profondità del corpo. Un vaso sanguigno che pulsa al ritmo del battito cardiaco. Il fondo è fuori fuoco e cromaticamente morente. E’ in realtà l’esterno, lontano e indistinto. Da subito, il film ci connette al nostro sentire. Il battito cardiaco sul silenzio, poi pian piano una musica, poi finalmente…
…emergiamo dalle viscere per vedere il mondo. E percepiamo una musica diversa, stavolta scandita, matematica, quasi algida. E’ la Partita n. 2 in do minore di Bach per pianoforte solo. Il suono ci arriva con un’eco potente. L’eco ci dice distanza e vuoto. Bach ci dice cultura. La casa che vediamo ci dice denaro. Le finestre illuminate sono poche e sono quelle più in alto, più ricche e lontane.
Finalmente, entriamo in casa. Ora la musica è senza eco, presente e pulita. Il pensiero di Bach è luminoso e scandito. Tutto è perfetto. Fiona è seduta di spalle. Digita sui tasti del computer. E questa è la seconda mossa separativa, dopo quella dell’inizio tra profondità del corpo ed esteriorità vuota e disabitata. Questo secondo livello di separatività lo conosciamo anche meglio: è l’esperienza che abbiamo quando sentiamo che il nostro battere sui tasti – e cioè il nostro procedere ognuno nel proprio lavoro e nella propria vita – non produce nessuna musica. La musica è un’altra, è quella di Bach, così pulita e perfetta e così inarrivabile per noi. E nemmeno gli altri sembrano contattabili: lavoriamo di spalle, faccia al muro, chiusi nell’eleganza formale delle nostre ripetizioni. Fiona non ci sente, mentre noi la guardiamo da dietro. Forse non sente nemmeno Bach. Forse nemmeno il rumore dei tasti.
E non sente nemmeno Jack, il marito. Che entra in scena già in movimento, in piena dinamica, dal fondo del corridoio. Svolta per entrare in soggiorno e raggiungere lo studio di Fiona. E nella volée della mdp scorgiamo il pianoforte. A questo serviva il suo cammino: a mostrarci il pianoforte. Aperto. Con lo spartito davanti. Vuoto e muto. Ecco cos’è Jack: è il pianoforte abbandonato di Fiona. E’ la musica che lei non sente più nella sua vita.
E questa è la prima immagine, l’imprinting della loro relazione. Sono due persone di spalle rispetto alla vita, che siamo noi che guardiamo. Jack insegue uno sguardo che non verrà mai. Fiona non vede e non sente più. Il dialogo sembrerebbe dire il contrario, perché lei risponde alla domanda. Ma il fatto è che risponde il falso. Non andrà a letto, soprattutto non ora. Ci sono dei sì che diciamo per allontanare e questo è uno di quelli. Rispondiamo alla domanda ma non alla persona che ce la sta ponendo. Questo perché sentiamo le parole ma non sentiamo la verità relazionale dalla quale provengono. E’ strategica, questa prima battuta, perché è anche la prima battuta di un amore. Ragazzo chiede a ragazza: vieni a letto con me? E’ la domanda delle domande, quella che manda avanti l’amore e la vita. E posta qui, da questo capolinea del cuore che batte organicamente come abbiamo appena visto, ma non esistenzialmente, acquisisce il senso di un cerchio che si chiude nella morte, nella fine di ogni cosa e nello spegnersi di ogni luce.
Tanta tristezza sarebbe insostenibile e anche un po’ patetica se non fosse sostenuta da un linguaggio intelligentissimo e di grande rigore formale. I segni servono a indicare i significati ma anche ad arginarli all’interno di un discorso che deve rimanere tale se vuole avere la forza di comunicare. Questo lo dico perché mi sembra che in Italia per timore di essere patetici abbiamo imparato a evitare temi e momenti cruciali della vita. Ma se il nostro mestiere è raccontare, dobbiamo poter raccontare tutto, quindi tanto vale misurarsi con la complessità di un linguaggio che ce lo consenta.
Tra ascoltare una persona e ascoltare solo quello che la persona ci dice c’è una differenza che porta a compiere azioni diverse. La domanda di Jack è semplice: vieni a letto con me? La risposta richiesta è sì o no. O anche “più tardi”. Invece Fiona spiega a Jack quello che sta facendo. Ti spiego perché non posso venire. Va bene, sembra una cosa gentile da dire. Ma si accorda male con il “Sì sì” precedente. E Fiona non si gira nemmeno. Alla fluidità e al movimento di Jack corrisponde l’immobilità chiusa di Fiona. In questa densità di segnali in contrasto fra loro sta un’informazione importante sulla loro coppia. Usano molto bene le parole ma le usano spesso per nascondere e per confondere.
Qui però emerge il tema che diventerà decisivo nel film. Quel che Fiona sta facendo è prepararsi al verdetto sui gemelli congiunti. Dunque, Fiona è un giudice. E il caso è delicatissimo, doloroso e difficile. Autorizzare l’ospedale a separarli o no? Ecco spuntare il tema profondo del film: la difficoltà di distinguere quel che non va confuso senza separare ciò che deve rimanere unito. Vedremo.
Che meraviglia quest’inquadratura. E’ uno specifico mondo maschile che soffre, un mondo assolutamente poco raccontato finora. Guardiamo i fondi, alle spalle di Jack. A sinistra la cultura, accumulata nella libreria in penombra, a destra l’eleganza con il suo nitore. Che però si configura come un sistema di sbarre. Un elegantissimo carcere, al quale Jack si aggrappa sfinito, sconfitto. Né cultura né classe sociale bastano a far girare Fiona verso di lui. Chi ha costruito tutto questo? Che corsa è stata arrivare in questa casa con la musica di Bach e il pianoforte disabitato e muto e la gente che lavora faccia al muro e non si gira nemmeno in caso di incendio? La tristezza di Jack è un oceano, ma Fiona non sente. Non ancora.
Poi Jack si riprende e avanza un’altra proposta: giocare un doppio sabato mattina con gli amici. E’ una proposta articolata. La prima era stata una proposta di intimità, andare a letto insieme, ed era una proposta per il presente, da accettare adesso per adesso. Declinata quella, Jack tenta una proposta per appuntamento. magari se te lo dico prima. Magari se è sabato mattina. Magari se ci sono gli amici. E’ una proposta ludica. Se non facciamo più l’amore almeno proviamo a giocare. Ed è una proposta di relazione sociale: se non abbiamo più una dimensione intima almeno proviamo a fare qualcosa insieme con gli amici. E’ interessante il punto macchina scelto da Richard Eyre, perché in teoria è un punto macchina che conferisce forza al soggetto. Siamo più in basso di lui e lui come postura potrebbe essere Terminator che guarda l’avversario di turno a terra. Ma tutto intorno ci dice il contrario. Splendido modo di farci sentire la debolezza e la fragilità dentro tanto ruolo sociale e dentro tanta ricchezza. Fiona declinerà senza nemmeno bisogno di dirlo e Jack se ne andrà sussurrando: Singoli. Che è quel che succederà sabato al campo da tennis senza Fiona e anche la fotografia della loro coppia: due singoli che vivono nella stessa casa.
Quando Jack se ne va, Fiona si gira verso di lui. E questa è la sintesi del suo percorso nei confronti di Jack. Una cosa è essere presenti fisicamente nella stessa stanza, una cosa è essere simultanei. La simultaneità è la vibrazione comune, empatica. Due corde di violino accordate sulla stessa nota vibrano nello stesso modo. E’ il sentire. Credo che questa sia una delle linee più intense del film. Supponiamo di essere seduti su una panchina in un parco con qualcuno che ci dice una cosa importante. E supponiamo di capire, di realizzare veramente questa cosa solo diversi anni dopo. Ci rendiamo conto che solo in quel momento siamo seduti su quella panchina con lui. Solo in quel momento di molti anni dopo siamo davvero simultanei, siamo davvero lì. Anche se la realtà fisica può essere tale che l’altra persona non esista neanche più. Il piano del sentire è completamente altro rispetto al piano fisico. Questo ritardo di Fiona è il ritardo di una vita, è il disallineamento del nostro cuore. E’ la nostra solitudine.
E finalmente entriamo nel merito di quel che Fiona sta scrivendo. Capitiamo sull’ultima riga, mentre lei digita le parole: “Il cuore di Michael è normale e sostiene entrambi. Il cervello di Luke….” E’ il ritratto della sua situazione affettiva. Il cuore di Jack sostiene la coppia, sostiene anche il cervello di Fiona. Ma non si può delegare il cuore a uno solo dei due e in ogni caso il cervello deve essere connesso al proprio cuore. Nessuna persona è un’altra e se vogliamo che la creatura della coppia viva, dobbiamo distinguere un cervello dall’altro e un cuore dall’altro, se no tutto diventa simbiotico e muore. Esattamente come i due gemelli con un cuore solo.
Intanto, Jack spegne la luce. E questa inquadratura è la spiegazione del testo che Fiona sta scrivendo in studio. L’intero dell’inquadratura, cioè in questo caso del mondo interiore di Jack, è la sua parte di letto più il vuoto a sinistra macchina. La parte di Fiona non c’è. Di fatto la sua vita è questa. Se vuole mantenerla intera e accettarla come tale, deve accettarne la divisione strutturale, la separazione che c’è di fatto con Fiona. La sua vita di marito non coincide più con il suo letto matrimoniale, ma con la sua parte di letto più una parte di solitudine e di esclusione.
Qui c’ èun passaggio importante della sceneggiatura, perché vista così quest’inquadratura potrebbe sembrare abbastanza inutile. Sappiamo già che Jack è andato a dormire, perché farcelo vedere, dato che non succede niente di particolare? E’ un problema di sguardo, appunto. Jack potrebbe rimanere in piedi, fare qualcosa e aspettare Fiona alla fine del suo lavoro. Ma se Jack vuole rispettare l’unità interna della propria vita, deve avere il coraggio di distinguersi da Fiona: la scelta rimane quella di andare a dormire. Non può essere quella di con-fondersi con le scelte dell’altro. Per non separare la vita, bisogna distinguere le vite.
E in studio, invece, arriviamo al centro del problema. I due gemellini congiunti. L’inquadratura è perfetta, solo apparentemente banale. Perché si gioca sulla distanza fra Fiona e le foto che tiene in mano. Distanza espressa dai fuochi e dalla luminanza. Lei è ancora lì, nel livello di coscienza di chi pensa che i problemi vadano ponderati sapendo sempre che noi siamo una cosa e i problemi da risolvere un’altra. E’ un’illusione di separatività destinata a frantumarsi nel meraviglioso e difficile viaggio che attende Fiona.
E qualcosa, la prima di questa storia, comincia a cambiare in lei. Ruota la fotografia. La domanda è preistorica rispetto a un’evoluzione seria, ma è il suo primo passo e lo accogliamo con tutta la felicità del caso. Ruotare la fotografia significa pensare: da che parte si guarda? Chi disegna come me, da bambino ha visto i propri disegni roteare mille volte nelle mani di adulti smarriti e disperati.
Dunque. Da che parte guardiamo il problema? Questa è l’ultima inquadratura della prima sequenza e come spesso accade, la risposta la troviamo nella prima. Il vaso sanguigno che pulsa al battito del cuore. Dall’interno. Né orizzontale né verticale. Né prima né poi. Ora e dal cuore. La rotazione è meravigliosa perché apre il campo al dubbio: avrò inteso bene? Avrò visto giusto? Se non si passa da qui, nulla è possibile. Fiona ci riesce, ma adesso deve arrivare alla camera da letto, che è la camera dell’intimità e della verità. Da che parte si guarda il problema è solo la premessa a chiedersi da che parte mi guarda il problema. Fiona deve ripristinare l’inquadratura sbagliata della vita di Jack e della sua. Deve capire che la foto dei gemelli è un ritratto di lei e della sua esistenza: un cuore solo che tiene in vita due persone non è possibile.
E’ il viaggio che l’attende: scoprire come i problemi esterni ci parlino di noi prima di giudicare la soluzione dei problemi. La prima scena è finita. Se non l’avete ancora visto, buona visione e buon viaggio.