La carcassa giace riversa sulla pancia. 35.000 metri quadrati di cemento armato senza porte, senza vetri, senza parapetti. Lo scheletro respira dai fianchi spalancati. Dentro e fuori dall’immenso cadavere formicolano circa 250 esseri umani. Rumeni, marocchini. Con taniche d’acqua, sacchetti di plastica troppo pieni, borse.
Su un pilastro è scritto con la vernice spray: Non è bello ciò che piace ma è bello bello bello.
Tutti i pilastri del portico deserto recano scritte. Rimango a guardarle una per una, parole spruzzate dove nessuno le leggerà mai. Film mai fatti. Intuizioni perdenti e bellissime.
L’edificio è un progetto abortito negli anni ’90.
Quel decennio si apre con me che sostengo un buon esame di letteratura greca e che provo vanamente a tradurre a prima vista Omero perché avevo letto male e non sapevo che fosse in programma. Annuso la corrente gelata di questo momento sotto il portico. Ma che c’era di sbagliato nell’aria degli anni ’90 ?
Quasi 30 anni di rigor mortis insepolto nel cuore del parco sud. Questo edificio è una memoria. Quando verrà ristrutturato bonificato ed evacuato, avremo un quartiere migliore e un pezzo di storia in meno. La storia degli errori. Accarezzo con gli occhi i muri di questo scempio. La bruttezza non fa finta e la puoi toccare davvero.
La salma del mostro sta intanata oltre un prato, qualche decina di metri lontano dal bordo strada. Di notte la luce dei lampioni non lo tocca. Di notte chi passa di qui si orienta come in mare: con le stelle. Se la forza di questo buco nero non lo risucchia.
A Ottobre 2015 toccò a Fabio venire qui in cerca di droga. Volò nella tromba dell’ascensore non costruito.
Nel prato davanti all’edificio ci sono funghi enormi. Deformi. Affiorano dall’erba con un colore malato. Questo posto produce cadaveri.
Poco oltre il mostro c’è un parchetto.
Ho girato due scene sotto quegli alberi. Per farlo ho camminato su un tappeto di profilattici.
Ho camminato anche sopra i cadaveri sepolti dei pentiti al Parco delle Groane per girare una scena con un gruppo di tossici. Uno di loro me ne svelò la presenza, ignota anche alla polizia.
Dieci anni di lavoro nel fallimento e nel buio. Toni che prega di non lasciarlo uscire dall’ospedale e quando lo mandano via si sdraia su una panchina del parco e si fa l’overdose finale. Mauro che viene al mio matrimonio e due mesi dopo lo trovano impiccato con le vene tagliate. Angelo che perde un occhio per una bottigliata in discoteca. Maurizio che esce dal carcere, fa un figlio e torna in carcere. Tutti ragazzi mai arrivati a uomini, vite spruzzate su questi pilastri. Tutti in scena in “Conchiglie”, lo spettacolo che ho portato al Portaromana.
Il Portaromana. Venduto, distrutto, sostituito da box.
Questo edificio è stato battezzato un pugno nello stomaco della città.
Tutto intorno al mostro si ramifica il suo esoscheletro di tubi innocenti. Tre gru. Altissime. Immobili sotto la luce definitiva dell’alba.
Dall’altra parte della strada, un piccolo parco senza erba. Ruspe tra gli alberi. Residui di capanni, tettoie di eternit, pezzi di mobili. Frammenti di un’evacuazione recentissima.
Lo spazio si apre dopo le epurazioni e asciuga le muffe dei capanni divelti. Si apre anche dentro di me. Un nuovo spazio per ricostruire. Per riprovare.
Idee che escono dalla verità delle cose come semplicemente stanno.