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Qualche parola ancora, su questo fraseggio di Mendes. Grazie a chi cammina con me.

“Jane e Angela sono arrivate a casa e questo costringe Lester e Ricky a ricomporsi in fretta. Anche questa è una scena di facile equivoco per Frank. Ma è preziosa, perché ci racconta un altro aspetto del nostro modo di amare. Quando abbiamo dei dubbi raccogliamo indizi. E ogni cosa che vediamo è una conferma della nostra teoria. Tutto è un indizio e man mano che procediamo in questo percorso di identificazione della colpa e del colpevole diventiamo sempre più bravi. Non ci sfugge più nulla ed è lì che il nostro vero nemico ha ottenuto quello che voleva: rompere la relazione fra noi e gli altri, ma soprattutto quella fra noi e noi stessi.

Scendiamo in cucina. Lester è pronto all’incontro con Jane e Angela, che sono appena entrate in casa. Si posiziona appoggiato al bancone. È tutto teatro. Lester sa che entrerà l’oggetto delle sue più intense fantasie sessuali e parte alla conquista. Ha fatto ginnastica durissima per avere i muscoli che Angela ha dichiarato di apprezzare così tanto. Adesso è il momento di mostrarli.

È bellissimo l’ingresso in cucina delle due ragazze. È potente perché è l’ingresso di tutte le donne del mondo. Jane è mora, Angela è bionda. Le bionde e le more. Le figlie e le amiche. La famiglia e l’avventura. L’amore e il sesso. La realtà e le fantasie. Tutto entra con loro. Tutto per Lester.

Ecco un’altra ala spezzata dell’amore: cambiare se stessi – la palestra forzata è una forma esplicita, fisica del cambiamento – pur di essere amati. A cosa ci porta il nostro disamore verso noi stessi? Quanto lontani da noi ci conduce il nostro sguardo sul nostro limite? Diventiamo a costo di duro lavoro quello che gli altri vogliono che siamo. Cambiamo massa muscolare, cambiamo convinzioni, cambiamo persino età. Quando non siamo connessi al nostro cuore l’approvazione degli altri è infinitamente più importante dell’amore verso noi stessi. Piacere è la demo di essere amati: sembra funzionare ma va presto in crash.

Lo spettacolo è ben preparato: i muscoli vengono notati da Angela con partecipazione sensuale. “Ha fatto palestra. Si vede benissimo” dice Angela. Si vede benissimo cosa? Non che ha fatto palestra, ma che l’ha fatta per lei. È un messaggio criptato – neanche tanto – per far capire a Lester che lei ha capito e che condivide il desiderio sessuale verso di lui.

È una triangolazione intrigante e complessa quella che Mendes ci sta raccontando. Non sta scritto da nessuna parte che un’amica non possa innamorarsi di tuo padre. Ma è un fatto che un amore clandestino viola e distrugge una famiglia – almeno potenzialmente. Quest’amore è Jane. In questo senso la triangolazione è complessa. L’amicizia fra le due ragazze è fitta ma non solida. E dal punto di vista di Lester, Jane è una figlia, mentre Angela è l’altra parte dell’amore, la parte bionda della questione.

La simmetria di Mendes prosegue implacabile. Se poco fa abbiamo assistito alla declinazione della sfiducia tra padre e figlio, nella casa di fronte assistiamo a quella tra padre e figlia. Jane e Angela entrano in cucina e Lester si fa trovare fischiettante e disinvolto. “Ah, ciao” – si lascia sfuggire ad arte. “Dov’è mamma?” risponde Jane. Dov’è mamma significa tu sei il papà. Ma bisogna essere presenti all’appello. Non è il caso di Lester.  “Non lo so”. Non sono io la persona cui puoi chiedere di tua madre. Perché in questo momento non sono il padre. Sono un ragazzino che corteggia la tua amica Angela. Non basta essere un padre, bisogna anche essere centrati nello stato del padre.  Ora Angela ammira i suoi muscoli e Jane esce dalla cucina, disgustata.

 L’uscita di Jane comincia con il totalino sulle due ragazze e prosegue in totale. Un fulminante totale. Perché Mendes impalla Jane con Angela: l’amica cancella la figlia. Il sesso cancella l’amore. La pulsione cancella la responsabilità. E adesso Angela può avanzare verso Lester per concludere la sua conquista. Al margine sinistro c’è una fruttiera, tutto a destra un mazzo di rose rosse. Due punti rossi agli estremi, quindi, tendono lo spazio bianco in penombra. È tutto il film che ci gioca, Mendes, con questi petali rossi. Il rosso è passione, se vogliamo è persino banale. Nella strada della passione Angela procede. Copre lo spazio fino ad arrivare a lui: “Guardi che braccia” dice lei ammirata. E finalmente c’è il contatto. Il braccio di Lester è sudato e l’azione è ancor più sensuale. Esiste un amore che prende per sé anche ciò che non è suo. E forse non è amore. “Ti piacciono i muscoli”? chiede Lester in piena tensione erotica. E Angela si defila, “Dovrei andare a vedere Jane che sta combinando”.

Fermiamoci un momento in questo terzo atto adrenalinico di American Beauty. Perché la moltitudine delle relazioni rischia di sfuggirci. Nella casa di fronte l’ex colonnello Fitts è la legge e si vede bene come vanno le cose. La legge è rappresentata dal padre, dal capo famiglia, dal principio di realtà. Ma proprio Frank Fitts è vittima del fatto che la realtà si può inventare. D’altro canto in casa Burnham il padre Lester è tutt’altro che presente al suo ruolo. La legge è abolita, non c’è. E si vede che non va molto meglio. Né la legge né la sua assenza garantiscono di per sé l’amore. L’una si preoccupa di arginare il male, l’altra forse di non aizzarlo con i divieti, ma di fatto nessuna delle due ci parla di relazioni emotive. Nessuna delle due ci parla del nostro desiderio semplice e profondo di essere riconosciuti e amati. Ancora una volta Mendes è speculare e simmetrico.

Tanto che stacchiamo e torniamo in casa Fitts. Ricky entra in camera sua, al buio. E al buio Frank lo sta aspettando, seduto. La camera è il luogo dell’intimità e questa è un’invasione bella e buona nel mezzo di un film che ruota attorno alla vergogna. Frank adesso vuole sapere: come li ha avuti Ricky i soldi per comprarsi tutte le cassette video che usa maniacalmente? Con il lavoro, risponde lui. Ma Frank non ha intenzione di fermarsi: “Ti ho visto con lui”, dice a Ricky riferendosi alla scena intravista dalla finestra. E mente, anche se non coscientemente. Perché lui crede di aver visto. Ma quel che crediamo di aver visto diventa quel che abbiamo visto e quel che abbiamo visto diventa quel che sappiamo senza ombra di dubbio.

È uno scontro violento e definitivo. Frank dice che non se ne starà inerme a guardare il suo unico figlio diventare un ciuccia cazzi. E sferra un destro alla mascella di Ricky che cade a terra sanguinante. Per Ricky è quasi una buona notizia: le paure di Frank l’hanno condotto fuori strada e non ha scoperto niente della droga. Come sempre la paura ci rende al tempo stesso diffidenti e miopi. Ma la minaccia di Frank è chiara: un figlio gay va fuori di casa.

Ecco un ennesimo piano dell’amore. Quello che regola il rapporto fra noi e la nostra casa. Costruiamo la casa a somiglianza del cuore. Se il cuore accoglie la casa accoglie. Se il cuore rifiuta, la casa rifiuta. Nella casa di Frank si può abitare a determinate condizioni. La cosa seria è che queste condizioni non riguardano ciò che uno fa – perché è naturale che una casa necessiti di un ordine e di una salvaguardia per cui non tutte le azioni possono essere consentite – ma riguardano ciò che uno è. Un figlio amorevole, sincero, maturo ma gay non andrebbe bene. L’appartenenza sessuale viene prima della persona.

Padre e figlio adesso sono a terra, Frank sta sopra a Ricky e sembra quasi specchiarcisi. “Ti preferisco morto piuttosto che un frocio schifoso”. L’odio rivolto a categorie astratte di persone non è mai un odio specifico e autenticamente personale. (L’odio a mio avviso non è mai autentico in ogni caso). È un odio imparato a scuola, in famiglia, in società. Un odio indotto e quindi non libero – ma anche qui: l’odio secondo me non è mai libero. In ogni caso esce chiarissima la definizione delle regole: ti amerò se sarai quello che voglio che tu sia.

Un’ultima cosa sulla costruzione difficile delle nostre case. Quando apparteniamo senza filtri, senza consapevolezza, senza argine alcuno a una qualsivoglia tendenza di pensiero o di ideologia, i nostri muri non sono i nostri muri. Le nostre parole non sono le nostre parole. I nostri pensieri non sono i nostri. E così i nostri rapporti familiari non ci appartengono ma si inseriscono con la stessa logica coercitiva nel contesto sociale: ti amerò solo se sarai quello che voglio che tu sia perché ci ameranno solo se saremo quello che vogliono che siamo. La costrizione del padre verso il figlio è solo una ripetizione di quello che anche il padre subisce dall’esterno. Questo territorio così duramente protetto, non ha barriere.” (…)

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  1. “Al margine sinistro c’è una fruttiera, tutto a destra un mazzo di rose rosse. Due punti rossi agli estremi, quindi, tendono lo spazio bianco in penombra.”… proprio come in questa pagina. Un caso? 😉

  2. “Al margine sinistro c’è una fruttiera, tutto a destra un mazzo di rose rosse. Due punti rossi agli estremi, quindi, tendono lo spazio bianco in penombra.”… proprio come in questa pagina. Un caso? 😉

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