È stata la mano di Dio – Perché non ho amato il film di Sorrentino

La realtà è scadente.
È il refrain di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.
Scadente è un giudizio, quindi è legittimo chiedere secondo chi.
Non lo chiederei a Sorrentino, il quale avrebbe ragione di rispondere che lui quello che doveva dire l’ha detto nel film, ma al pubblico che ha apprezzato profondamente questo suo lavoro.
Aggiungerei un’altra domanda: scadente secondo quale criterio di eccellenza?

Non sono riuscito a capirlo durante l’intero film ed è per questo che di solito di cinema italiano non parlo: ho difficoltà a comprenderlo ed è evidente anche a me che si tratti di un problema mio.

Più facile comprendere nel film, invece, quale sia il rimedio di fronte a questa realtà scadente. Il rimedio è la fuga e la fuga si chiama cinema. Le immagini talmente perfette da essere oniriche, la realtà tra-sognata di tutto il racconto. La surrealtà che pervade ogni dettaglio, per cui abbiamo sempre la sensazione che qualunque cosa potrebbe capitare. La semi-favola che abbellisce una realtà a tratti impervia e troppo dura da digerire.

In questo caso poi, Sorrentino ci racconta davvero la sua storia, quindi proprio non posso pensare a operazioni furbe o non ispirate. Sta pescando dal suo dolore ed è un dolore vero, autentico, struggente, ricondotto a un mondo e a un linguaggio perfettamente confezionati e arginati.

Questa è la prima causa del distacco che sento da questo tipo di cinema. Perché per me il cinema è il moto inverso, ma il cinema è meraviglioso proprio perché ognuno di noi lo vive e lo intende a modo suo. Se se ne parla con intelligenza non ha mai senso fare una polemica, perché il cinema è un sentire e nessuno può questionare il sentire altrui. Per me, per esempio, il cinema è una sonda, un trapano, un ecografo. Qualcosa per andarci proprio dentro a questa realtà scadente. Per sentirne tutte le abrasioni, le imperfezioni, il sudore. E, finalmente, l’amore. Da un film voglio un’esperienza, non una protezione dalle esperienze a base di estetica o di zucchero.

Credo alla sincerità con cui Sorrentino ha girato per esempio la sequenza iniziale. Anzi, credo alla sincerità di Sorrentino lungo tutto il film, sento la sua voglia sincera di raccontarci di lui, ma per me fare un fly over sul lungomare e stringere su una macchina d’epoca non significa essere poetici e non mi rimanda a nessun clima onirico. Nel mio mondo percettivo è solo una bella inquadratura con un movimento di macchina perfetto.

La questione naturalmente riguarda tutto l’evento cinematografico. Anche la recitazione, ad esempio. Anche qui è questione di sguardo personale: per me la recitazione cinematografica ha senso solo se diventa pericolosa. Se tremo guardando quello che un personaggio potrebbe fare di lì al secondo dopo. Voglio vivere due ore dentro una storia a tutti gli effetti.

In È stata la mano di Dio la coreografia di ogni dettaglio e la prevalenza del linguaggio sul contenuto sono talmente spinte che senti in ogni momento che nulla di quello che un personaggio potrebbe fare avrebbe la forza di turbare la forma delle cose.

E qui i casi sono due, o forse di più: se contempli la forma godi, se cerchi la vita rischi di annoiarti più di un po’. Niente di imprevedibile accade e non nel senso che non ci siano colpi di scena, ma nel senso che la vita non sborda mai per un secondo da quel che è stato stabilito, dalla volontà di controllo e di bellezza a tutti i costi che sta dietro la camera.

Faccio un esempio concreto: la scena nella quale a lui viene impedito di vedere i genitori morti. Quando parte la salita emotiva di Filippo Scotti è evidente che finirà nel tracimare e lo fa esattamente nei tempi e nei modi in cui ce lo aspettiamo. Per constatarlo bene si dovrebbe prendere la scena e analizzarla passo passo. Ma chi vuole può farlo da sé. Non c’è un’esplosione di rabbia: ce n’è solo la citazione. Niente si scompone davvero nella percezione. E va bene così, perché questo è il suo cinema.

Quelle che sto indicando non sono mancanze, sono caratteristiche, scelte di cinema. In me producono una noia istantanea, ma questo riguarda me.

Un’ultima considerazione – del tutto personale e arbitraria – riguarda ancora il refrain che la realtà è scadente. Anche da questo mi sento terribilmente lontano. La trovo un’affermazione compiaciuta, borghesissima, salottiera e anche un po’ vecchia. Trovo questo nostro tempo straordinario in tante cose: nel dolore, nelle ingiustizie, negli interrogativi sul futuro immediato e remoto. La realtà la sento tragica, stupefacente, commovente, imperdibile. Non sento alcun bisogno di rifugiarmi in un linguaggio estetico e anestetico per dimenticarmela. E se anche Sorrentino alludeva alla realtà degli anni di Maradona, ho vissuto e amato anche quella.

Per questo, tra il film semplicemente impeccabile di Sorrentino e la realtà scadente, oggi, preferisco la realtà.

Era: È stata la mano di Dio – Perché non ho amato il film di Sorrentino, di Giovanni Covini

6 risposte

  1. Condivido pienamente. Per me l’errore di Sorrentino è di voler imitare Fellini senza esserlo. Senza l’afflato poetico e metafisico tipico di Fellini, i film di Sorrentino ne sono solo una bella copia ben confezionata.

    1. Grazie Carlo del tuo pensiero. Non mi sento di parlare di errori. Sorrentino fa il suo cinema e questo è il suo sguardo. Io non riesco a entrarci, semplicemente. Torna a trovarmi!

  2. “Se cerchi la vita rischi di annoiarti un po’ di più”. Grazie per avermi illuminato sul motivo per cui mi sono annoiata per tutto il film. Mi sono annoiata anche guardando Qui rido io. E credo che il motivo sia lo stesso.
    Sembra ovvio, adesso che l’hai detto tu.

    Sabrina

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