Il meraviglioso stato delle cose – di Giovanni Covini
Cammino lungo quello che dovrebbe diventare il Porto di Ospedaletti. Dovrebbe da non so più quanti anni perché i lavori si sono fermati, sono ripresi, si sono rifermati e forse adesso riprenderanno.
Intermittenze che in Italia conosciamo perfettamente e che ognuno di noi forse conosce per sé nella vita. Dunque passeggio in questa terra di nessuno, che per me rimane sospesa tra la scogliera selvaggia di quando andavo a pescare e un futuro annunciato molto tempo fa con yacht, barche e negozi.
Guardo il cantiere con tenerezza, perché ormai so che quando morirò lascerò anch’io le mie gru in giro. Non avrò finito tutti i lavori, non avrò chiuso tutte le storie, i conti non avrò nemmeno iniziato a farli per bene. Avrò un progetto di lavoro con qualcuno, una mezza idea – sempre mezze idee, chissà dove sono tutte le altre metà… – e altre in sospeso solo con me stesso. Del tipo scriverò, girerò, fotograferò…
Un porto in queste condizioni non è un porto. Nessuno ci attracca e nessuno ci parte. E nessuno ci può nemmeno più fare un bagno perché i lavori in corso consentono l’accesso solo agli addetti. Bella anche questa storia. Quando ho un lavoro in corso dentro di me, la prima cosa che faccio è chiudere i passaggi. Cautela, forse. Ma è curioso, perché anche se da un punto di vista logistico e logico la cosa ha molto senso, su un altro piano trasformiamo di fatto un luogo di transito come il porto nel suo esatto contrario.
Mentre osservo rifletto sul fatto che in realtà, dentro di me, un cantiere da qualche parte c’è sempre. Qualcosa che lavora, che necessita di manutenzione, abbattimenti, ricostruzioni. C’è sempre. È una sorta di attività fisiologica che quindi va presa come tale, diciamo che dentro di me e dentro a molte persone la squadra addetta alla trasformazione lavora anche a Capodanno.
Dato che lo sento parte di me, rimango a osservare il cantiere non con gli occhi di ciò che non è mai diventato o di ciò che tarda a diventare, ma con gli occhi di questo presente.
Il cantiere è il cantiere, esiste di per sé, prima e fuori e oltre il nostro progetto di porto. Sta lì e oggi quel suo stare lì è compiuto e perfetto per quello che è. Sento un senso di ordine estremo, di perfetta armonia che non ha niente a che vedere con gli 8 anni di scandali e attese che hanno provato gli incolpevoli cittadini di Ospedaletti. Mi sposto frugando nello spazio per trovare il punto esatto da cui quest’armonia possa essere vista.
E scatto questa foto.
Nella quale vedo quello che c’è e parte di quello che non c’è. Guardo la catena della gru che pende e mi dico che manca l’uovo di struzzo di Piero della Francesca. L’idea che gli struzzi potessero fecondarsi da soli come allusione alla fecondità di Maria. Cos’è successo a quell’uovo, dov’è finito? È caduto e si è spiaccicato diventando un esotico brunch per gabbiani? O siccome questa è la realtà e non un dipinto simbolico, l’uovo non c’è mai stato e abbiamo perso le speranze che lo spirito in noi possa fecondare le idee e creare meraviglie?
Un cantiere è un progetto e il progetto per sua natura ha una fine e tende a un fine. E se è vero che ogni punto della strada è fatto per essere lasciato – se no la vita non sarebbe un percorso – è anche vero che ogni passo è il frutto di quelli precedenti e che come tale può essere osservato, sentito, onorato. Ogni passo è parziale rispetto al percorso ma concluso e pieno in se stesso. Quindi si può stare a osservare il cantiere e quello che il cantiere evoca dentro di noi. Il cantiere non è un non – porto. È un cantiere: è Piero della Francesca, l’uovo di struzzo, la fecondità autonoma del nostro cuore. L’assurdità delle situazioni e la loro semplice concretezza.
Posso stare qui. Con le cose ancora non finite, con quelle sbagliate, con quelle che non chiuderò mai.
Con gli occhi sgranati per il meraviglioso stato delle cose, quale che questo stato sia. È meraviglioso perché c’è, perché lo sento, perché è per me anche se non mi piace. Soffrire di per sé fa male ma non è detto che sia un male.
Se mi libero di questo equivoco, colgo l’aspetto interiore e meraviglioso della pur disastrosa incompiutezza di questo porto. Posso aggirarmi fra le mie rovine anziché evitarle perché – se lo voglio – l’addetto al mio cantiere sono io. Per me il divieto d’accesso non c’è. Posso cercare il punto di equilibrio che rende questo momento perfetto. Disaccoppiandolo dalle mie fantasie di realizzazione, dai mille porti pieni di ricchissimi yacht che ho sognato di realizzare nella mia vita.
Posso considerare quanto narcisismo ci sia stato nei miei progetti, quanto ce ne sia anche nei più sinceri percorsi di miglioramento personale che vedo attorno a me. Al di là delle buone intenzioni consapevoli, quanta arroganza si nasconde quando dico a me stesso che voglio essere migliore di quello che sono?
Se voglio avere titolo di desiderare una cosa del genere devo entrare nel cantiere, diventare un addetto ai lavori. Stancarmi su questo materiale grezzo che sono per capire cosa sia, quali potenzialità abbia. Quando mi sforzo di essere migliore, sono migliore secondo chi? Secondo quale idea di me?
Essere nel cantiere va bene. Essere il cantiere va bene. Essere addetti al lavoro su se stessi è un traguardo. Ti assumono a vita, ferie incluse. Ma c’è un obiettivo difficile: ritrovare l’uovo di Piero della Francesca.
Era: Lo stato meraviglioso delle cose – di Giovanni Covini
l cantiere fa parte di un progetto. Il progetto in architettura è quel disegno preciso, documentato da calcoli infinitesimali, valutazioni della natura del terreno, scelta dei materiali, ecc., ma il progetto è anche quella prospettiva fantastica in cui l’oggetto progettato è circondato da alberi, giardini, viali e magai anche figurine di personaggi improbabili Per realizzare il progetto ci vuole il cantiere e nel cantiere gru, camion, ruspe, uomini in tuta e casco che lavorano, loro non sanno forse neppure esattamente cosa stanno costruendo, però ci sono: quello che adesso non c’è è il sogno, la prospettiva alberata e colorata. Si raggiungerà la realizzazione del progetto se si attraverserà il lavoro al buio, con fiducia, usando tutto: gru, ruspe, fatica; se il fine resta sempre “il progetto”, così com’era all’inizio, se non si ha paura della fatica, se non si dubita della solidità di ciò che si costruisce.
Non riesco a capire cosa c’entri l’uovo di Piero, sospeso nell’aria rarefatta di quel dipinto; l’uovo non lavora e non sogna, ecco, lascia tutti immobili e muti… è ciò che accade al cantiere … se si abbandonano i sogni.
L’uovo per me è quello che manca, data la catena che scende nel centro dello spazio che mi ricordava quel filo. E l’Uovo è il simbolo della fecondità che al tempo ritenevano autonoma negli struzzi. Lamento anche io quello che lamenti tu: la mancanza di questa fiducia nella fecondità, che è la bellezza del progetto che si compirà. Qui abbiamo un cantiere fermo. Ci dà l’occasione di essere guardato come cantiere, di farci abitare questo tempo necessario e di contemplarlo. Ma il dolore della mancanza dell’Uovo come fecondità, come speranza concreta di arrivare a un compimento rimane e pervade ogni cosa. Basta sentire gli abitanti di Ospedaletti…
Grazie per il tuo passaggio.