Quel giorno di primavera del 1991 dovevo capire una serie di cose che il destino aveva in serbo per me. Ma non c’erano cartelli ad avvisarmi, quindi finii in fondo alla sala, da solo come sempre, in attesa di vedere questo thriller che sembrava essere un buon film dato il successo ma comunque sempre roba americana era.
Due ore dopo avevo vissuto la mia prima volta. La prima volta in cui avevo davvero fatto l’amore con un film. Avevo appena visto Il Silenzio degli Innocenti. Qualcosa di simile era successo anche con La signora della porta accanto, di Truffaut. Ma quando lo vidi era già stato proclamato capolavoro e la visione era su un piccolo monitor della Sormani di Milano. Qui ero al cinema, a vedere una prima visione. Qui non si prevedevano momenti epici.
Invece a 23 anni, appena uscito dalla Paolo Grassi, ricevevo una contro-lezione memorabile. Dopo anni passati a sentirmi dire che per fare una regia bisogna sapere bene cosa si vuol comunicare, assistevo a un film semplicemente mostruoso in cui era chiaro che dietro tanta sapienza linguistica e tecnica ci fosse un uomo pazzo d’amore per i suoi personaggi e per i suoi attori. Un uomo che correva a perdifiato per stare vicino ai loro sospiri, alle loro mezze parole, alle occhiate, ai passaggi quasi casuali che casuali non sono mai.
Non mi avevano detto tutto, ma erano stati onesti perché comunque mi avevano detto quello che avevano capito. Lui era oltre. Jonathan Demme parlava d’amore. E certo che sapeva benissimo cosa voleva dire, certo che organizzava i segni linguistici come un dio. Ma questo veniva dopo la cosa fondamentale. E cioè il suo desiderio disperato di loro: dei personaggi che raccontava, delle loro transazioni emotive, il suo desiderio di capire.
Ecco, il desiderio di capire. Che è fondamentale perchè rovescia l’approccio. Quando desidero è perché non ho. Desiderare di capire significa non aver capito. Un film va girato sbracciandosi nell’ignoranza per uscirne. E’ la lotta disperata per vedere quando non si vede, per sapere quando non si sa, per credere quando non si crede. Ma che cosa passa nella testa di Clarice quando accetta l’asciugamano da Hannibal? E’ un passaggio fondamentale nella vita di tutti noi: che cosa fai quando la parte oscura di te ti porge aiuto?
Il controllo di Jonathan Demme è inarrivabile. Perché si limita ad esercitarsi su quello su cui va esercitato. La sua camera contempla il dramma di fondo. Sintatticamente è ineccepibile, drammaticamente non parteggia. Non dice cosa bisognerebbe fare dire o pensare nella vita. Non commenta. Non invade. La sua camera sta accanto, appresso, vicina alla vita. La sente con la pancia.
Amare Hannibal Lecter come lo ama Jonathan Demme, così visceralmente, significa amare di noi anche la parte più oscura, pericolosa e perversa. E se amiamo di noi anche le parti più nere, l’amore vince. Ecco cosa non mi avevano detto a scuola. In nessuna delle scuole: non mi avevano detto dell’amore. Del sentimento sì, del desiderio tantissimo. Dell’odio anche, molto. Dell’amore mai. Del coraggio inconsciente che ci vuole per buttarsi senza riserve alla ricerca dell’altro, perché l’altro sta conducendo la sua battaglia e la sua battaglia appartiene anche a te, se credi che siamo esseri viventi dello stesso mondo.
In questo momento credo che una delle parole più usate sull’intero pianeta sia la parola “diritto”. Si difendono giustamente i diritti di tutti e tutti i diritti. E questo clima si infiltra anche nelle storie. Ottima cosa il diritto. Ma se prendiamo Philadelphia ci rendiamo conto che nessun diritto – pur essendo necessario – è sufficiente a restituire un uomo a se stesso. C’è una dimensione che è quella essenziale e che è totalmente, scandalosamente gratuita. Che è donata o non donata liberamente e imperscrutabilmente dalla vita. Tutti – per parlare di Philadelphia – hanno diritto di essere curati e rispettati. Nessuno ha diritto alla salute. La salute è un dono e per distribuirla la vita non segue statuti.
Jonathan Demme mi ha detto dell’amore. La sua camera che freme attorno al personaggio, che pende dalle sue labbra, che si sfinisce a rincorrere per stare dentro la vita. E l’altra faccia della medaglia? L’aspetto linguistico così peculiare di Demme? La sua precisione Bachiana? Sembrerebbe matematica, altro che non essere certi di quel che si vuole dire. Quella, in realtà, è la cura che lui si prende di noi. Il linguaggio tecnicamente inteso non è in alternativa all’amore viscerale e incontrollato per i personaggi, perché il linguaggio non entra nel merito del nostro rapporto con loro: si occupa di trasferire questo rapporto a chi guarda. E’ il tramite. E’ attenzione a noi.
Sul set la camera non molla il personaggio, sullo schermo il fraseggio non molla noi. Noi siamo l’altra parte del suo amore. Vuole che dentro la camera ci siano i nostri occhi, ci sia il nostro cuore, ci siano i nostri pensieri. Il suo miracolo è che noi siamo lì. Siamo veramente lì con lui in mezzo ai suoi personaggi. Ci rende testimoni. Ci mette in pericolo. Ci sveglia.
Bisognerebbe fare una prova concreta, mettersi lì con un suo film e guardarlo, fermarsi, osservare, considerare. Rendersi conto di quanto amore. Lui è l’evidenza del fatto che i personaggi esistono quando e quanto sono amati. Come gli altri dentro di noi e come noi dentro gli altri. Esistiamo a intermittenza, a volte più incisi a volte sbiaditi.
Jonathan Demme ci ricorda che siamo vivi. Che ogni parte di noi lo è. Che ogni parte che decideremo di raccontare almeno a noi stessi vivrà e che ogni parte che taceremo morirà.
Grazie Maestro, per non aver mollato un secondo la presa sulla vita profonda di ognuno di noi.
Era (forse) il 1992…. Armeggiando compulsivamente con i tasti Play e Stop di un videoregistratore VHS, Giovanni mi svelò i segreti del nostro lato oscuro… E mentre la musica tracimava persino sui titoli di testa, io, che ancora mi baloccavo con i concettualismi di Bunuel e Moretti, scoprii che la mia ignoranza sarebbe stata il motore della mia vita. Ed in quel salotto Jonathan e Giovanni mi hanno detto dell’amore. Grazie, a distanza di anni.
Più o meno nello stesso anno, una domenica mattina, faticavo a spiegare a mio padre che ero tornato alle 2.30 perché stavo in macchina con te, sotto casa mia, a cercare di capire in che senso il tempo fosse la quarta dimensione dello spazio.
Credo che mio padre non mi abbia mai creduto e credo che avesse tutte le ragioni per non farlo. Della quarta dimensione dello spazio non ho capito praticamente nulla. Ma so che c’è, so che potrei un giorno capirla. E questo è tutto. Abbiamo perso insieme un sacco di tempo meraviglioso insieme, caro Stefano! Grazie a te!