È mezzanotte e trentadue. Lee è a letto ma non riesce a dormire. È appena morto suo fratello Joe e lui ne sta ospitando il figlio sedicenne – Patrick – dato che la madre è lontana da molti anni. Patrick ha portato con sé anche la sua ragazza. Sono nell’altra camera, lei dorme e lui scrive alla madre assente che il papà è morto. È un quadro di solitudine siderale. È notte nella vita di tutti questi personaggi.

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La mattina dopo, Lee si informa con le pompe funebri per sistemare il funerale. Lonergan crea un quadro perfetto. Linea di fuga centrale dei muri e dei mobili della cucina. Lee a sinistra macchina e a destra la sedia vuota. L’elemento che sbilancia, che guasta la simmetria è l’assenza. È di questo che stiamo parlando.

Arriva la fidanzata di Patrick e si prepara la colazione. Sedendosi riempie il vuoto della sedia a destra ma nel contempo appoggia una tovaglietta anche per Patrick e questo ricrea un’assenza.

Poi Patrick arriva: è una macchia rossa che si staglia nell’inquadratura. Posa sul tavolo una tazza rossa che ne rinforza il volume. Patrick è l’emozione. Per quanto repressa, tenuta a bada, nascosta. Patrick ribolle di rabbia verso la vita e nemmeno lui sa quanto.

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Al telefono continua la trattativa sul cadavere, finché la ragazza sgrida sottovoce Lee e lo manda di là. Non è giusto che Patrick senta questi discorsi sul padre. Lee non discute: si alza e si allontana continuando a parlare. E la ragazza fa un’affermazione di valori: non è possibile avere in testa solo le cose pratiche ed economiche. Ma l’elemento fondamentale della scena è lo spostamento del vuoto. Ora il vuoto è finito a sinistra macchina. Riguardando questi tre scatti è più facile capirlo.

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Ecco perché Patrick e la ragazza sono quasi allineati, quasi impallati. Perché devono pesare nell’inquadratura quanto Lee, cioè quanto una persona sola. Adesso l’inquadratura è ribaltata e noi sentiamo che per Lee è impossibile sedere al tavolo con qualcuno. O c’è lui o ci sono gli altri.

Lee non ha scelto di andare di là: ci è stato mandato. È una struttura narrativa potente. Lui dovrebbe essere il responsabile. È il fratello del morto, è il più adulto, è il padrone di casa. Ma vince questa nuova coppia – che chissà se avrà un futuro – che già da subito definisce regole relazionali, codici di comunicazione. E che dà ordini. È il figlio che viene mandato di là in castigo se si comporta male a tavola, non il padre. E qui cominciamo a toccare il vero problema di Lee. Non essere mai diventato padre. È una cosa per la quale avere dei figli non basta. Ma la vedremo più avanti.

Rimane decisiva quest’assenza finale di Lee. C’è quasi un nesso causale tra inizio e fine della scena:

Non ci sono gli altri (inizio con sedia vuota a destra) perché non ci sei tu (fine scena, vuoto a sinistra).

E perché Lee non c’è? Perché, come dicevamo, sarebbe toccato a lui essere padre, protettivo, accudente. Ma Lee si occupa delle cose senza preoccuparsi delle persone. Si occupa di chi è morto ma non pensa a chi è vivo. Non è cattivo: proprio non lo sa fare. Si assenta, si occupa dei morti e viene cacciato dalla cucina. E non è l’unico a fare così in quel di Manchester.

Dall’allenatore all’avvocato ai passanti: nessuno si fa toccare dalla vita se appena può evitarlo.

Manchester by-the-sea è l’Universo dei padri mancati.

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