La prima cosa che avevo notato erano i muri. Pieni di numeri di telefono senza nome. Scritti direttamente sulla parete con pennarelli, biro, matite. Una specie di tappezzeria fatta a mano. Una tappezzeria di relazioni, una stanza piena di voci, di amici, di chissà quante persone. Era tiepido e le finestre erano aperte. Dalle finestre entravano passerotti dall’albero vicino. Entravano nel senso che si mettevano proprio a saltellare sul tavolo, a beccare quello che c’era in giro.
In giro c’erano tazze, dentro le quali c’erano altre tazze più piccole, dentro le quali a volte un bicchierino da liquore. Nel caffè rimasto sul fondo c’erano mozziconi di sigarette spente. Si sarebbe detto un disastro. Camminare era un’impresa perché c’erano pochissimi centimetri liberi dagli oggetti e dai libri.
Lei stava seduta là, nel suo soggiorno. Sarebbe sbagliato dire “con dignità”, sarebbe riduttivo. Stava seduta con regalità. Con una gioia di vivere che le faceva brillare negli occhi anche tutte le lacrime. E quando raccontava, quando parlava di sé o della poesia, della vita in generale, si veniva coinvolti in un vortice per lei per niente vorticoso. Come se fosse abituata e consapevole nel suo camminare sull’orlo dell’abisso, in bilico sempre tra baratro e luce. Un incontro che non dimenticherò mai.
Questa è una delle sue poesia che amo di più.
Cara Federica
Cara Federica dirò come soffro
perché ci è dato tanto soffrire,
perché vediamo tagliare dalla terra
le nostre spighe migliori
anche io ero una spiga che cresceva nei campi,
credi Federica,
i poeti non sono seminati da alcuno
li porta il vento della primavera.
Oggi per la mia donna è un giorno di libertà
ma per noi prigionieri dell’arte
è un altro giorno di prigionia.
Non sono felice della mia morte
carissima Federica
eppure me ne dovrò andare
dopo aver perso la fede
che era nei cuori dei miei amici.
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