E’ una sorta di legge valida quando si racconta una storia ed è una di quelle cui più difficilmente si riesce a fare attenzione: ogni singolo elemento prende senso dal contesto in cui è inserito e ogni elemento modifica il contesto in cui si inserisce. In altre parole esiste una contaminazione continua fra l’insieme e ognuna delle sue parti, ma anche fra presente e passato, dato che un elemento nuovo si inserisce in un contesto che è diventato tale nel tempo.
I nostri politici lo sanno benissimo, in questo e forse non solo in questo maggioranza e opposizione si somigliano pienamente: nel comunicare il dettaglio come se non fosse un dettaglio e nel far passare l’insieme come se fosse un elemento parziale e periferico. Ma a parte i nostri politici, che non riescono a muovere in me alcuna passione, penso al mio, al nostro modo di raccontare, al mondo in cui il nostro racconto si inserisce e al modo in cui le due cose si contaminano e si cambiano vicendevolmente.
C’è qualche cosa, oggi, che fa di noi ad un tempo non solo narratori e pubblico ma narratori e contenuto narrato. Raccontiamo noi stessi e chi ha un blog esalta ancora di più questa tendenza. Presumiamo un interesse per ciò che diciamo, lo mettiamo on line pensando che le nostre parole – che sono sempre il nostro punto di vista – possano riguardare, incidere, rappresentare qualcosa per le persone che passeranno di lì.
Passeranno di lì, appunto. E dov’è questo “lì” ? E’ in rete, nella bolgia infernale della rete. Nella moltitudine di siti e nella penuria di tragitti di senso. Una situazione che non piace a molti. E sarà anche vero come si dice che l’ordine è disordine senza fantasia, ma in questo modo nemmeno la fantasia si vede più perché non si vedono più i segni. Troppa roba. Troppe parole. Troppo rumore. Alla fine: anche troppi blog.
Me lo chiedo anche io, con sempre maggior insistenza. Ammesso e non concesso di avere la cosa più giusta del mondo da dire, bisognerebbe dirla anche in un contesto in cui la cosa più urgente del mondo fosse fare silenzio ? Se il contesto non funziona, possiamo lavorare per cambiarlo facendo esattamente ciò che non lo fa più funzionare ? Si può fare qualcosa con qualcosa che la disfa? Quante volte ci siamo resi conto che sarebbe stato meglio tacere nonostante siamo ancora convinti di ciò che abbiamo detto?
Quando rivendichiamo la libertà di spegnere il televisore e ci lamentiamo dei palinsesti da decerebrati che ci propinano, per che cosa decidiamo di spegnere? Per avere cosa in cambio di quel che non vogliamo più ? Altre parole in rete da leggere ? Altre immagini fra le quali navigare ? Con quale vantaggio ? Con quale senso in più?
Confesso di scrivere camminando sul filo di questa ambivalenza e la cosa non mi turba più che ogni altra azione che compio nella mia giornata. Sono ambivalenti tutte, che io lo capisca o no, che mi sia chiaro o meno. Credo di conoscere il motivo delle cose che faccio ma in realtà conosco solo il motivo che mi sono detto.
E quindi ? Quindi niente, non so. So che guardare l’ambiguità e l’ambivalenza di quello che si fa – almeno una volta ogni tanto – aiuta a farsi qualche domanda. Tenere o non tenere un blog ? Un animale di fronte a un bivio sceglie. Un uomo anche, ma la sua scelta è più complessa perché dentro di lui abitano due ipotesi ulteriori: che siano buone tutte e due le strade, o che siano entrambe cattive.
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