E’ successo qualche anno fa su una spiaggia ligure. Un libro che Samuele aveva appoggiato sotto la sdraio. Il vento che gira e rigira le pagine. E una formica che le attraversa. Mi è rimasta impressa subito, c’era qualcosa di forte. L’inconsapevolezza della formica credo. O qualcosa che aveva a che fare con me e che a distanza di anni forse riesco a fissare meglio. E cioè che le parole non possono essere solo capite. Devono essere attraversate con lentezza. Conosciute lettera per lettera lungo pagine piene di vento: parole labili e indimenticabili. O percorse nella pace e nel rigore di un tempo di studio: parole chiare e sicure che fanno le fondamenta.

Ripetere con lentezza come gli attori. Re-citare: citare ancora. E come gli attori provare a farle nostre. Scoprire che le parole diventano in effetti parte di noi solo quando si polarizzano, quando assumono il colore preciso del sapore che ci fanno sentire, quello che ci dice come stiamo e chi siamo. In sostanza, le parole diventano nostre solo quando diventano insufficienti a dire quel che dovrebbero dire. Quando sono così ricche di memoria, di senso, di contraddizioni, di emozioni, da non poter più indicare che una pallida ombra di quel che sono diventate per noi.

Poi ci sono le parole che ascolti dieci anni dopo che ti sono state dette, quando chi te le ha dette non è più lì con te o non è più la stessa persona di allora. Eravate seduti al tavolino del bar e quella persona ti diceva le sue parole. E tu ti ci siedi soltanto ora a quel tavolo. Allora c’erano le tue orecchie, adesso ci sei tu. E ti rendi conto che devi chiedere scusa a te stesso per non essere stato presente al presente e che ora è inutile rimpiangere, è più importante svegliarsi e decidere di esserci adesso.

La formica dentro di noi attraversa anche le parole non dette. Quelle non dette agli altri fanno un danno relativo. Insomma, un po’ di rabbia, un po’ di rancore magari. Anche qualche rimorso o qualche senso di colpa. Ma quelle che non hai detto a te stesso sono quelle che fanno più male. Almeno a me. Quelle semplici e vere che erano sotto i tuoi occhi e che la paura ti ha fatto evitare. Parole brevi come: vero, falso, basta, cambia. E molte altre che in realtà una parte di te ti diceva e l’altra rigettava.

Poi ci sono le parole rimaste nella bocca degli altri. A volte ti sembra di intravederle nei loro occhi, nei piccoli frammenti quotidiani. A seconda dei casi ci speri o le temi. A volte te ne senti amaramente certo. E sai comunque che il loro destino è quello di rimanere non dette. Quelle parole sono difficili da attraversare perché sono crepacci tra te e l’altra persona. E sono crepacci anche dentro di te. Forse in questi casi bisognerebbe trovare… una parola per quelle parole. Una parola per definire in un modo accettabile il crepaccio. Per ricondurre la nostra solitudine a qualcosa di comunicabile almeno a noi stessi.

Da ultime, le parole sorpresa. Quelle che si accendono di colpo a un certo punto della tua vita. Quelle che ti illuminano mostrandoti una parte di loro che non avevi mai visto. Prendo la parola preoccupazione. Da ragazzo era quella dei miei genitori per problemi di cui nulla sapevo. E la loro preoccupazione per me, per la scuola, per le famose… responsabilità (altra parola…). Poi è diventata una cucina e una cena con Giada quando si trattava di proseguire una gravidanza molto rischiosa. Allora era la nostra preoccupazione. Poi di un pronto soccorso quando sul lettino c’ero io. E la preoccupazione è diventata quella degli altri per me: una carezza dolcissima fatta con gli occhi da chi ti guarda. Oggi, preoccupazione è una parola troppo grande per dire se stessa. Oggi è un insieme di storie. E’ una parola sorpresa.

 

0 risposte

  1. Un libro puoi rileggerlo, la formichina può tornare indietro sulle stesse parole scritte. Le parole dette da qualcuno non puoi riudirle, almeno non in quella situazione, non con lo stesso tono. Puoi, è vero, scoprire nella memoria un aspetto di cui non ti eri accorto. Di quante cose non ci accorgiamo! A volte, quando ce ne rendiamo conto è troppo tardi e allora capiamo che la nostra reazione era sproporzionata, inadatta alla situazione vera. Allora si cerca di stare più attenti, sapendo che nei confronti degli altri, si continuerà ugualmente a sbagliare.

  2. E ci sono molte parole inter-dette, nel senso di vietate, ostacolate, bloccate nel loro incedere, spesso soffocate proprio nel momento in cui avrebbero potuto aprire una nuova possibilità, una nuova inquadratura sulla scena.

    Ed anche molte parole ribadite (in questo caso l’etimologia non riporta al verbo “dire”, ma al verbo “ribatire”, cioè ribattere un chiodo, per renderlo più saldo), che ci hanno martellato nel tempo la mente, convincendoci gradualmente del loro contenuto di “verità”, riducendo la nostra capacità di avere dubbi, di cambiare opinione.

    Chiudo con una frase “sopresa” (di B.Brecht, spero che Giovanni non me ne voglia!), che seppur ascoltata molti anni fa, si è accesa di nuovi significati solo dopo la nascita di mio figlio: “Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore”

    Ste

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