
Attraverso l’amica Liz vengo a conoscenza di questa vignetta. Non la trovo così geniale ma molto… liberante. Perché dice la verità. Sul nostro punto di vista e su quello che ci raccontiamo. Ho provato una sola volta a mandare a case editrici un racconto. Non finì così ma forse fu anche peggio. Mi risposero con lunghe analisi piene di elogi che si concludevano con la tariffa per la pubblicazione. Ovviamente non pubblicai mai.
Poi mi è capitato il contrario. Persone che mi hanno dato da leggere i loro lavori. Ne ho letti tanti in questi anni. Commedie, sceneggiature, romanzi, racconti e raccontini. I livelli erano molto diversi. Quelli bravi ci sono e li vedi subito. Poi ci sono quelli che hanno una cosa da raccontare e lo fanno con cuore e impegno e magari neanche troppo male. Ma hanno un grande nemico: la normalità di quello che raccontano e del loro sguardo. Che alla fine ho imparato a riconoscere come il desiderio disperato di piacere. Di andare bene. Di essere pubblicabili. E loro non passano. Non passano mai perché hanno lo sguardo spuntato, mal direzionato. Quando cerchi di andare bene scrivi pensando al pensiero degli altri, il che rende la tua scrittura un’esperienza esteriore. Quando sei fulminato da qualcosa scrivi da dentro, senza sapere che cosa accadrà del tuo scritto. Scrivi perché se no muori. Non significa ancora che andrà bene, ma la posizione è corretta perché alla gente piace essere portata in altri mondi e almeno nelle storie la gente ama andare fino in fondo, fino alle conseguenze ultime.
Però… è vero anche il contrario. La nostra letteratura e la nostra televisione dimostrano che alla gente piace proprio la banalità. E allora come se ne esce? Personalmente ho concluso che alla gente piace la banalità purché sia ben organizzata, in modo professionale, con i tempi e i colori giusti. E per questo bisogna essere bravi. Se si girano i canali televisivi o si vedono i nostri film, spesso si ha la sensazione di una schiera di autori che disperatamente cercano di essere originali. E alla fine somigliano a tutti quelli che vogliono essere originali.
C’è una linea d’equilibrio per uscirne? In letteratura non so. Al cinema direi… avere un’identità molto specifica e un linguaggio di comprensibilità universale. Invece spesso siamo stereotipati nei contenuti e incomprensibili nel linguaggio.
Sì, i calci nei denti li ho presi anche io e se non li prendo più è perché non chiedo più nulla. Si fanno passi lenti e si sonda il terreno e se si scivola si sa un po’ meglio come cadere per non rimanerci sotto. Ma questa vignetta la dedico con il cuore ai tanti che scrivono con sincerità, con amore, con continuità e con passione. E che magari non hanno alcun talento ma non rinunciano a scrivere per se stessi sognando un giorno chissà, di prenderci con la storia giusta e di fare il botto.
Solo alcune cose, per loro. Leggiamo i romanzi che hanno fatto centro. Parlo soprattutto di italiani. Per quanti di loro valeva davvero la pena? Quanti di questi successi sono delle buone storie davvero? D’altra parte: quante buone storie non vengono alla ribalta per mille (s)conosciute ragioni? Solite domande solite risposte. Ma la cosa che mi sento di consigliare a chi fosse sulla perigliosa strada del primo tentativo editoriale è di continuare a scrivere sereno, con tutta la libertà e la pienezza che sente dentro, lavorando e studiando per rendere sempre migliore la sua scrittura. Ma di farlo con libertà, senza connettere questa che è un’attività intima e personale a un’idea astratta di successo nel mondo. Farlo per sé. Perché così, scrivere può diventare un modo per leggersi dentro e per capirsi. Per stare con se stessi e frequentarsi un po’. Se ci accorgiamo che senza prospettive editoriali viene meno la nostra voglia di scrivere, hanno avuto ragione a respingerci.
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