Ci sono film che si prestano in modo particolare a farci guardare il nostro modo di guardare. Film come questo, cui rimanda il link del post precedente. Perché mettono pressione alle nostre idee e alle nostre aspettative più radicali e più radicate nei confronti della vita. Possiamo sentirci attaccati o sostenuti, possiamo ritenerlo un film che finalmente racconta le cose come stanno in tema di libero arbitrio e di solidarietà. O tutto il contrario. Ma quando i temi sono così forti e fondanti, indipendentemente dal nostro parere e dal parere dell’autore, il pericolo maggiore è di credere che siano film su qualcosa. Vorrei provare a disinnescare questo automatismo dell’argomento. Questo non è un film sul suicidio. Fondamentalmente perché – come diceva Fassbinder – non si fa un film su qualcosa. Si fa un film con qualcosa. Con una ragazza, con un anziano che non ha più voglia di vivere, con una bicicletta, con un bicchiere d’acqua, con degli sguardi.

Può apparire oziosa la riflessione, invece ci alleggerisce le spalle di molti pesi che portiamo anche quando non è necessario. Pensare questo film non come un film su qualcosa ma come un film con qualcosa, ci rivela che non siamo costretti a dibattere sul suicidio. Non implica riflessioni, espressioni di pareri – non che i dibattiti e i pareri siano nefasti di per sé, tutt’altro – ci viene anzi offerta la possibilità di stare con queste persone che vivono nel corpo dei due attori. Stare con loro, sentire quello che gli succede dentro. Dimenticarci – almeno per il tempo in cui il film scorre – che questa storia è stata scritta, girata e montata da qualcuno. Smetterla di torturarci con pensieri come che cosa avrà voluto dire l’autore, quale sarà il messaggio, il meta-messaggio, la tesi di fondo e altre allucinazioni del genere che sono purtroppo un imprinting della nostra cultura.

Possiamo calmarci, di fronte a questo film. La recitazione è di un livello così alto che ci consente di illuderci che sia tutto vero. Possiamo stare lì. E finalmente vivere il miracolo che il cinema cerca sempre di realizzare: regalarci un momento di un’altra vita, oppure della stessa vita ma ad un livello superiore di intensità e di significato, quando le cose nelle inquadrature diventano più di se stesse. Stare con la paura di questa ragazza, con la sua incertezza. Stare con la sofferenza sincera e innocente di quest’uomo anziano e solo. Perché il punto è che se partono le valutazioni della nostra mente, dei nostri principi e delle nostre idee, vince ancora una volta il passato. Tutte le opinioni, i pareri personali che abbiamo e nei quali ci riconosciamo, sono idee maturate nel passato, per l’esperienza che abbiamo fatto della vita. E ci impediscono di essere lì, presenti a quello che accade in quel momento.

Il cinema è un momento in cui stare nudi, presenti e leggeri. Senza tutto ciò che fa di noi quello che riteniamo di essere. Sollevati di questo peso potremmo scoprire di essere anche dell’altro. Potremmo scoprire che la nostra pancia ci dice qualcosa di simile a quello che fa la ragazza del film, o possiamo scoprire che dentro di noi ci sono voci discordi dall’opinione che pensavamo di avere. Un luogo meraviglioso in cui scoprire di avere dei dubbi e poterne uscire senza danni. In questo senso, le storie così asciutte e per niente arrabbiate, le storie così libere dalle tesi, dai messaggi da dimostrare, ci offrono molto di più. Una chance. Altri mondi interiori che potremmo scoprire di avere e di essere. Anziché porci di fronte al film con tono indagatore: Vediamo cosa dici e ti dirò cosa ne penso io, il cinema di alto livello ci offre la possibilità di essere lì indifesi, tra noi e noi, di metterci di fronte alla storia e dire:

Okay, sono qui. Toccami.

 

0 risposte

  1. Mi hai chiarito le idee sul perché mi è piaciuto questo corto, nonostante le mille incognite createsi nel mi cervello.
    E mi hai anche aperto una porta di ispirazione facendomi ragionare sul fare un film CON e non SU qualcosa.

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