Dopo lo scontro decisivo, qualcosa di irrevocabile è accaduto. Un nuovo equilibrio governa il mondo del nostro personaggio. Vincente o perdente che sia stato, lo scontro decisivo decide il nuovo presente. In Europa proviamo un certo fastidio per gli happy end americani, e anche un certo sospetto di secondi fini, appartenenti più al botteghino che alla storia narrata. In effetti spesso le storie vengono distorte al fine di essere più vendibili, ma per non far sentire troppo soli gli americani basta pensare a “Brucio nel vento” di Silvio Soldini, tratto dal breve e fulminante romanzo della Kristoff “Ieri”. E’ solo un esempio.

    Personalmente credo che il fastidio profondo, il latente senso di disagio che si prova uscendo dal cinema certe volte, in questi ultimi quindici anni si sia lievemente modificato. Mi spiego. Il problema non è più tanto l’happy end, quanto proprio il senso di end. Il nuovo equilibrio che segue lo scontro decisivo afferma un modello di storia in tre atti (equilibrio – conflitto – nuovo equilibrio) di impianto restaurativo. Un impianto cui oggi siamo sempre meno disposti a credere.
Perché oggi facciamo fatica a pensare che ci sia un sistema stabile a qualunque livello: di valori, di affetti, di identità. Non sembrano più storie del nostro mondo.

    Non è una crisi nuova. E’ antica e non è cominciata con il cinema. Ad un certo punto qualcosa si incrina nella nostra fiducia nelle storie compiute. Gli eventi di per sé non bastano, non interessano più. E così Ibsen se li butta alle spalle e il suo teatro si sintetizza perfettamente nella battuta di Hedda Gabler: “sediamoci e parliamo” (di quello che è successo molti anni fa). Ibsen aveva una fitta corrispondenza con Freud, e le sue storie non sono mai restaurative, il suo scontro decisivo schiude solo le porte alla fine dell’esistenza dei protagonisti. Non tanto i fatti, quanto il peso che hanno avuto per noi e di cui non ci siamo mai liberati sono oggetto del suo narrare.

    I personaggi deragliano dalle strade troppo ben preparate, troppo arginate e ripulite dagli errori narrativi della vita vera. Si perdono, angosciati perché consapevoli di non essere inseriti in una storia dotata di senso e di pensiero: manca un autore, per questo non c’è senso nelle nostre vite. Pirandello racconta questo, insieme a tutto il resto. E un passo oltre li vediamo stagliarsi privati anche di quella vicenda senza senso, ridotti a pura attesa di qualcosa che gli restituisca identità e futuro, che può provenire solo dall’esterno perché l’interno è stato già devastato da tutto il Novecento: aspettano Godot nelle mani di Beckett.

    Chiedo scusa per la sommarietà del filo che ho seguito. Questo punto è uno dei più affascinanti per me. Perché allora cosa si dovrebbe concludere: che i finali irrefutabili non funzionano più ? Che le storie dovrebbero avere due atti ? Finale aperto o finale chiuso e tutta la retorica che se fa nei vari corsi di sceneggiatura ?
Non lo so. Penso a Shakespeare. A Romeo e Giulietta. Il finale è mastodontico, netto, irrefutabile. Andiamo via contenti per la sensazione di aver assistito ad una storia assolutamente compiuta e chiusa. Eppure se ci pensiamo, quel finale continua a muoversi dentro di noi. I giovani sono morti, i vecchi rinascono a nuova vita, l’amore è sconfitto dalla guerra, la guerra è sconfitta dall’amore. Tutto è finito e tutto è ancora in gioco. La storia è finita, e la storia ricomincia con noi quando usciamo dal teatro.

    Così, seguo il manuale di sceneggiatura e leggo: dopo lo scontro decisivo bisogna rendere chiaro qual è il nuovo equilibrio del mondo. Altrimenti quel conflitto sarà stato inutile. Facile, no ? Sui manuali di sceneggiatura è sempre tutto così facile…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *