Proprio il mancato confronto con le armi cambia la lettura di tutto il percorso. Non è stata la lunga marcia di avvicinamento al conflitto di due nemici, ma il lungo cammino dalla solitudine verso la relazione di due persone sole, divise da un fatto atroce e accomunate da una guerra ancora più atroce.

Alla fine, tutta la fatica del secondo atto serve ad incontrarsi e ad incontrare se stessi. E quando ci si incontra e ci si riconosce e ci si definisce, non si combatte più. Le fatiche di questi anni intensi e laboriosi sono lì per noi, per disegnare il solco convergente dei nostri percorsi e dei significati che man mano impariamo a dargli. Anche l’oblio del nostro primo atto è parte del percorso. Vivere un tempo in cui non si vedono più né l’inizio né l’arrivo ti costringe all’essenzialità. Se non riconosci la mappa e tutto si confonde intorno a te, ti rimangono il sole di giorno e le stelle di notte per non perderti.

Il secondo atto, dei tre è il più concreto e il più mistico. Il più bagnato di sangue e il più spirituale, il più sprofondato nel fango e il più innocente. E’ dove si gioca la partita, dove si impara pagando e a volte si paga senza nemmeno imparare. E’ il centro della vita e dei conflitti, sei tu con l’ostacolo, è l’ostacolo che fa finta di starti di fronte e invece ti sta dentro. La battuta chiave per definire il secondo atto l’ho sentita un giorno sull’autobus, la si sente spesso ma quella volta la ragazza era veramente fuori di sé. Parlando al cellulare con un’amica diceva: “Eh no, giovedì non posso. Sono troppo incasinata, guarda, sono incasinatissima”.

Stretti nella morsa del fare, amputati dei due estremi del tempo che sono il progettare e il tirare le somme, rischiamo di perdere la rotta perché non ricordiamo la partenza e non vediamo la meta. Quando progettiamo esprimiamo un desiderio: indirizzare il futuro in una certa direzione. Significa azioni, ostacoli, fatiche e forse soddisfazioni. Quest’entusiasmo che ci spinge a farlo è fondamentale perché siamo noi che fondiamo la radice del tempo che verrà.

Impostare una meta implica lo scegliere il significato di un percorso. Poi il secondo atto distoglie, distrae, affatica, annebbia. E quando ci ritroviamo nel terzo atto delle cose, facciamo un bilancio. Fare il bilancio è l’altro estremo del tempo, a cose fatte. Non è facile nemmeno quello. Dare senso a ciò che è accaduto. Un senso che ci metta in armonia con noi stessi, con i nostri limiti, con i veri moventi delle nostre azioni. Il terzo atto siamo noi che ci raccontiamo la nostra storia mentre ne raccogliamo i frutti. Raccontare se stessi a se stessi significa dare un nome al percorso fatto. Chi dà un nome conosce. Chi conosce fa proprie le cose. Oggi mi sembra che raccontare sia questo: far propria una storia, renderla vera dentro di noi.

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