Capita a tutti prima o poi. Sentirsi persi e desiderare una guida nel buio. Magari abbiamo passato la vita a rifiutare i maestri, conosciamo bene la sensazione di repulsione di fronte a chi vuole a tutti i costi spiegarci la vita. Però certe volte si fa buio e ci rendiamo conto che una bussola ci voleva. Il punto è: dove sono questi maestri? Chi sono? Cosa fanno e dove si sono nascosti? Maestri credibili, che abbiano il carisma e l’autorevolezza per sostenere la loro autorità. In mancanza di veri interpreti del ruolo – e di insegnanti di ruolo – ripieghiamo sui supplenti.
Supplire significa letteralmente riempire un vuoto. Ma una cosa è riempire un vuoto e un’altra riuscire a valere il pieno di prima. Quando le certezze dell’infanzia lasciano il posto ai tremori e alle ombre dell’adolescenza, quel vuoto dovrebbe essere atteso, ascoltato, riempito dall’amore dei maestri. Maestri in famiglia, a scuola, nei gruppi di appartenenza. Ma i maestri non ci sono. Ci sono sostituti temporanei e casuali.
Detachment è la storia di un supplente. Un periodo in una scuola di trincea sociale, nel pieno disagio psicologico, economico, culturale. La premessa è che sarà per poco, forse solo un mese. La Preside chiarisce subito che molti studenti sono sotto il minimo e che da lui ci si aspetta semplicemente che riesca a rispettare il programma. Ma nel cuore di Henry la priorità è il rispetto degli allievi come persone a tutto tondo. Non sarà facile e la guerra sarà quotidiana.
Detachment è un film imperfetto e bellissimo. Molto girato a mano, tra fuori fuoco e sottoesposizioni, ha il grande merito di connettere con efficacia i drammi interiori di Henry a quelli sociali della scuola pubblica e in questo modo di rendere il discorso sociale un discorso che ci riguarda tutti intimamente. Forse è un film sulla fame d’amore, sul disperato bisogno che abbiamo di essere educati, ascoltati, accolti e persino puniti se la cosa avviene con amore.
La vita di Henry è stata durissima, piena di dolore. Questo dolore ha provocato il Distacco, la difficoltà cronica nel costruire e accettare relazioni significative e intense. Troppo soffrire per vivere, più prudente una sorvegliata solitudine. E la precarietà del lavoro di supplente che non diventa mai di ruolo – che quindi semanticamente non assume mai su di sé la responsabilità di dire e insegnare, che non fa i conti con la propria vera identità – diventa quasi un’arma per tirarsi indietro, per tenere sempre aperta una via di fuga. Ma in realtà sono proprio il suo dolore e il suo distacco tattico a provocare l’effetto contrario.
Infatti l’empatia con i ragazzi non è data dalla scorta di buoni consigli automatici che un docente si porta con sé, bensì dal contatto che quel docente ha con il proprio dolore personale profondo. E’ proprio questo che dà il carisma: il nostro contatto con noi stessi, l’autenticità con cui facciamo, diciamo, pensiamo, la non condizionabilità dall’esterno. Henry nel suo dolore ci vive senza fughe, senza finzioni, senza filtri. E questo modo di vivere gli dà orecchie finissime e occhi trasparenti, senza che diventi un santo perché nel film è sempre evidente che Henry vive così per se stesso e innanzitutto a scopo difensivo. Henry ha carisma proprio perché ha un ascolto viscerale del dolore altrui, perché lo sente risuonare nel proprio. Ecco dove stava il punto: non tentare di spiegare agli altri la vita ma tentare di capire la propria. Questo apre la strada alla relazione, toglie di mezzo le regole e libera la verità.
L’empatia è un dono specifico e speciale di chi ha sofferto. Chi sa cosa significhi la parola dolore sa anche riconoscere dove si trova. Tony Kaye vaga zingaro con la camera in cerca d’amore. Sul suo percorso, attraverso Henry, incontriamo una giovanissima prostituta, una studentessa acuta e disperata, numerosi colleghi di lavoro. Tutti cercano qualcuno che li ami e li guidi, che li sorregga. Henry sente il peso di queste vite e non se ne difende. Spalanca la sua casa alla giovane prostituta senza nulla chiedere in cambio, si ferma a parlare con l’allieva difficile, partecipa a tutto e… non giudica mai.
Ho letto molte recensioni che esprimono perplessità su questo lavoro di Kaye. Le condivido quasi tutte. Cita altri film, in alcuni casi è schematico, stereotipato e tutto quello che si vuole. Ma ha preso Adrien Brody, ha condiviso con lui un’idea e glie l’ha fatta vivere addosso con una verità luminosa e struggente. Aveva un’emozione precisa che ha comunicato in modo suggestivo e scomposto, con poesia e intuizione.
Mi lascia l’immagine del precario, questo film. Il supplente precario per definizione. E mi viene in mente che da precario deriva pregare. Che dovrebbe significare quindi ricordare la propria precarietà, starci dentro consapevolmente. In questo senso il film di Kaye è anche una preghiera. A nessun dio, probabilmente, ma alla parte spirituale di noi che vuole dare e ricevere amore.
Il distacco emotivo che ha il protagonista è palpabile, si sente addosso.
Lui pensa che salvando la piccola prostituta o la sua allieva “artista” salvi se stesso.
Purtroppo, alla fine anche lui, come per tutti noi empatici e “feriti”, non guarirà…..non guariremo mai!