La storia ormai la conosciamo tutti. Una donna prende un aereo con sua figlia per riportare la salma del marito al suo paese. Durante il viaggio, la bambina scompare. Era evidente che ci fosse, ma nessno l’ha notata. E non risulta tra le carte d’imbarco. Non è più così evidente che ci sia e che ci sia mai stata.

    Ho letto cose negative su questo film. Più che altro giudizi di sufficienza e forse anche dati con sufficienza. Non mi soffermo nemmeno sulla credibilità del film, sulla costruzione del thriller. Non che non siano aspetti importanti, ma credo che ve ne siano di più importanti ancora.  

    E’ cognizione comune tra chi si occupa di cinema, che la costruzione di un film americano classico –  e quindi anche di un film all’americana – si svolga in tre atti. Il primo introduce, il secondo sviluppa, il terzo chiude. I manuali americani spiegano che il primo atto dura circa mezz’ora, il secondo circa un’ora, il terzo circa mezz’ora come il primo. Lo spiegano ma non è vero quasi mai. In realtà il terzo atto dura circa la metà del primo, e nei casi in cui non è così – per esempio in Ghost – se ne sente il peso quasi inevitabilmente.

    Se tutto questo è abbastanza digerito ormai, lo sono molto meno le implicazioni profonde di una struttura in tre atti. Cioè che cosa comporti che ci siano un inizio, uno sviluppo e un finale. Per esempio comporta che spesso il primo atto ci mostra una situazione di equilibrio, il secondo un momento di frattura, e il terzo la costituzione di un nuovo equilibrio su una base diversa e più alta e profonda. In altre parole, significa che la struttura classica del cinema americano è restaurativa. Tende in qualche modo a restaurare un’idea di equilibrio e di nuova stabilità, per quanto diversa e lontana da quella di partenza.

    Solo che la vita, spesso… non restaura un bel niente. E se il cinema deve parlare della vita non può trincerarsi dietro a canoni drammaturgici rassicuranti.  Che si fa allora ? Struttura in due atti ?  Beh, “La stanza del figlio” di Nanni Moretti era così. L’apparente squilibrio  strutturale di quel film (diviso in prima e dopo)  ne costituiva in realtà la forza. Si andava via con la convinzione che niente restaura la normalità dopo la morte di un figlio. C’era qualcosa di molto vero.

    Flightplan fa un’operazione più lieve sulla struttura. Gli atti sono tre. 1. Aeroporto fino a decollo. 2. La bimba è sparita. Ricerche. 3. L’aereo è vuoto e a terra. Dentro, la nostra eroina e il suo rivale. E’ il momento della verità.

    Solo che la durata di questi tre atti è energicamente alterata rispetto al solito. Il secondo atto si mangia ampi spazi del primo e del terzo. Per raccontarci quello che veramente gli sta a cuore. Il travaglio di una persona che conosce la verità sulla propria vita. O meglio, che credeva di conoscerla. O anzi, che forse non la conosce per niente… A dodicimila piedi  non c’è nessun appoggio sicuro (il marito è morto cadendo da un tetto…). Un aereo è un viaggio ma è anche la metafora di una comunità che viaggia. Fra mille paure (certo è presente l’11 settembre) e mille sospetti (l’idiosincrasia per i mediorientali), l’aereo procede nel suo viaggio verso la meta, mentre il personaggio procede nel suo viaggio verso la verità di se stesso.

    Una verità che può essere messa in discussione così fortemente, un’identità che può essere così brutalmente messa ai voti, da indurre persino una madre a cercare sull’oblò il disegnino fatto con il dito dalla bambina, per trovare conferma di sé. Così avviene che il viaggio di ognuno di noi può andare in senso contrario a quello di tutti gli altri. Nello stesso aereo che punta a un luogo, nessuno punta dalla stessa parte. Come dentro di noi, che andiamo dritti per una strada, mille voci ci spingono nelle direzioni più diverse.

    La struttura così sbilanciata ottiene l’effetto di appoggiarci pochissimo per terra. Ci fa sentire che il viaggio della nostra esistenza è un saltare da una stabilità apparente ad un’altra attraverso lunghi, estenuanti tragitti di ricerca di noi stessi, della nostra identità, dei nostri affetti più profondi. Ci dice che spesso questo viaggio è reso ancor più duro e penoso proprio da chi sta viaggiando con noi, dai nostri compagni e vicini.

    All’inizio siamo a terra in una situazione di instabilità (la bambina in mezzo all’aeroporto ha fame e si allontana dalla madre che per un momento non la trova più), mentre alla fine siamo a terra ma in un luogo diverso da quello nel quale avremmo dovuto trovarci. (L’aereo è stato fatto atterrare in emergenza, siamo fuori strada). E se è vero che la verità alla fine viene fuori, non è recuperata la verità delle relazioni. La madre, tra gli sguardi bassi di chi aveva dubitato di lei, sfila tra la gente con la sua bambina in braccio, come in mezzo a un campo minato. Si recuperano a volte i danni materiali, mai quelli morali. Mai le ferite che subiamo dentro. Questo interminabile, claustrofobico, virtuosistico secondo atto ci spinge a concludere che la struttura è nient’altro che l’organismo che raccoglie le azioni dei personaggi, e le azioni sono un’emanazione necessaria e diretta dei desideri profondi. Quindi è fisiologico, in casi come questo, che i film siano apparentemente sghembi. Raddrizzati sarebbero falsi. Spesso i film come questo non raccolgono il plauso della critica. Un altro caso fu “Una estranea fra di noi” di Sidney Lumet. Un film di straordinaria bellezza, bollato come un thrillerino mal funzionante.

    Un’ultima breve considerazione per Jodie Foster. Finalmente, dopo “Il silenzio degli innocenti” e “Sotto accusa”, torna su un copione forte, intenso, non decorativo. Si muove nell’aereo come un gatto selvatico in gabbia, come siamo noi contenuti dalle regole sociali. La sua fragilità e il suo amore per la figlia (veramente sua figlia nella vita) si realizzano in ogni brevissimo gesto, in ogni respiro, in ogni silenzio, in ogni battuta. Come al solito di lei mi colpisce la consapevolezza. Jodie Foster in ogni film ha una continuità di recitazione impressionante. Sembra sempre che giri tutto di fila e tutto dall’inizio alla fine. Ovviamente non è mai così.

 

    Considero questo film un regalo per tutti. Credo sia esperienza comune il non essere creduti o capiti o accettati. Il ritrovarsi in viaggi obbligati sentendo la lontananza da tutto e da tutti. L’impotenza di dire la propria verità. I film servono anche a questo. Quando la vita è un volo difficile, ricordatevi di Flightplan, e del suo interminabile secondo atto.

     

 

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