Non poteva esistere un mondo migliore di questo. Lo dice la voce narrante di Kidnapped all’inizio del film. Il mondo meraviglioso di cui parla è quello in cui lo spaccio è alla luce del sole e ogni generazione assume il proprio tipo di pillole. Per sballare, per dimagrire, per dormire. Il film si apre proprio con la morte dello spacciatore che fa da riferimento per tutta la comunità giovanile.
Il tema della storia viene così delineato con un gesto luminoso e sintetico, come il cinema sa fare quando è consapevole e intelligente: che cosa facciamo quando muore lo spacciatore di sogni dentro di noi, quando muore quel principio che egli rappresenta nella vita: il principio di piacere sganciato da ogni rapporto con quello di realtà ?
Kidnapped è una struggente, gelida storia di resistenza. Ad ogni scalino del dolore che la realtà ci presenta, corrisponde un nuovo livello della nostra negazione. Esiste solo ciò che ci piace, ci intrattiene, ci distrae dal dolore e dal passare del tempo. Detto così sembra la premessa di un film moralista e bigotto. Invece questa è la leva per una taglientissima parabola per niente scontata.
Come detto, è la morte a porsi come principio di realtà. E’ il suicidio dello spacciatore, e riguarda da vicino soltanto sua madre e il suo più caro amico. Il film sta nei loro percorsi di presa di coscienza, e sullo scollamento progressivo che la presa di coscienza della vita provoca con il resto del mondo, che invece non ne vuole sapere.
La madre passa buona parte del film a tranquillizzare la gente più vicina: lei non dà la colpa a nessuno per quello che è successo a suo figlio. Gli altri, dal canto loro, la guardano straniti, perché in quel mondo proprio nessuno si sente in colpa per il suicidio del ragazzo.
Così facendo non si rende conto che anche di fronte alla morte di un figlio non riesce a far altro che continuare a parlare di sé. Di che cosa sente e di che cosa pensa, di chi incolpa e di chi non incolpa. Solo alla fine, quando avrà attraversato un difficile e discontinuo percorso di consapevolezza, piangerà – che traguardo ! – la morte di suo figlio nella scena più bella del film. Lei dirà: “E’ stata colpa mia. Io non lo conoscevo, non so niente di lui.” Per la prima volta si domanda qualcosa di chi le stava di fronte, ed ecco il migliore amico del ragazzo, davanti a lei, trovare finalmente la strada per una relazione umana. Lentamente, semplicemente, le racconta le cose più semplici di suo figlio, quel ragazzo che lei (non) aveva cresciuto, che (non) aveva amato. “Faceva bellissime fotografie alla gente, che poi teneva per sé”.
Per la prima volta questa madre si occupa di suo figlio, anche se fuori tempo massimo. E occupandosi del figlio veramente, per la prima volta entra in contatto con se stessa. E piange.
E’ l’altra scena chiave del film, che chiude in un cerchio fortissimo l’assioma tematico della sceneggiatura. Che questo è un mondo in cui non si riesce più ad entrare in contatto con la realtà perché siamo troppo occupati a stare bene noi, con le nostre proiezioni, le nostre fantasie e le nostre illusioni. Con le nostre pillole. Sembrerà paradossale, ma tutta quest’ansia di non stare male, di essere sereni e tranquilli, è esattamente ciò che ci allontana da noi stessi.
La realtà, gli altri, con le difficoltà e il dolore che comportano, sembrano essere l’unica via che ci può ricondurre a noi stessi e alla profondità di quello che sentiamo. Kidnapped con un gusto acido, tra il videogame il grottesco e l’astratto, tesse un gelido filo che perfora il cuore di chiunque si ponga la sua stessa domanda e accetti il suo gioco: e se morisse lo spacciatore dentro di me ? E se tutto quello che non voglio vedere mi sbattesse addosso all’improvviso, senza lasciarmi il tempo di difendermi, di fare una bella seduta di yoga rilassante, prendere un valium o togliermi una voglia ?
Quando siamo troppo sicuri di stare bene, quando tutto fila troppo liscio, senza nessuna crepa… Kidnapped sta là, nello scaffale dei film. A chiederci se è proprio vero.