Un caro amico mi racconta una storia vera.

    Qualche tempo fa due suoi clienti, marito e moglie, decidono di andare in crociera. Passano dei giorni splendidi, ma a metà del viaggio, in mezzo all’oceano e dall’altra parte del globo, alla moglie viene un infarto e muore. La nave è attrezzata per questa eventualità. Esiste una bara ed esiste una cella frigorifera. La donna viene messa nella bara e chiusa nella cella. Il marito prosegue il viaggio – non per sua scelta, ma perché a quanto pare non c’era altro modo di riportare più brevemente il cadavere in patria – in mezzo agli amici conosciuti a bordo. Improvvisamente vedovo, con la vita ribaltata da capo a piedi, la moglie nella cella frigorifera a pochi metri da lui. Per altri quindici giorni. L’amico mi dice che l’uomo gli racconta la cosa quasi con neutralità.  

    Insomma, ci giriamo un po’ intorno, è una storia che troviamo pazzesca, e l’amico mi confessa che come sceneggiatore non sarebbe mai arrivato a concepire una situazione del genere. In effetti nemmeno io. Beh, come la raccontiamo una cosa così ?  No dai, anche su questo non si può… è un modo indecente di… ma poi ci convinciamo: è il nostro modo di rielaborare tutto. Sdoganati nella nostra riflessione, cominciamo a ipotizzare che si tratti di una storia di specchi.

    Tutto quello che succede prima della morte viene specchiato distorto dopo. Ogni gioia diventa dolore, ogni speranza rimpianto e così via. Non solo è banale, ma c’è un rischio insito nelle strutture after and before: quello de La stanza del figlio.  Come molte linee strutturate in due atti ti si spaccano in mezzo.  Il perno è troppo pesante e l’asse  di curvatura del personaggio si frantuma. La morte sta bene ma non così, bisogna contestualizzarla in una scatola più ampia, che la renda solo uno degli eventi, sebbene uno dei principali.

    Bene, cambiamo fronte, forse è un grow up. Storia di un viaggio che rappresenta un congedo da una persona, da una parte della propria vita, e che ci lancia verso il futuro, verso una nuova  identità. Allora certo, ci interessa sapere anche del suo rientro a casa, del suo lavoro, dei suoi figli se ne ha. Ma ci rendiamo conto che alla fine… non ne sappiamo niente.

    Parliamo tutta la sera di questo plot. E’ fortissimo. Ma alla fine ci rendiamo conto che… non sappiamo nemmeno di cosa parli. Non tanto perché è un’esperienza estrema che grazie a Dio non conosciamo dal di dentro, quanto perché i fatti sono solo il plot, e il plot non coincide con il senso che ha dentro.

    Per quanto sia una storia vera e forte, non ne possedevamo la verità. Sì… umilmente ci si trova a riconoscere che una vicenda è troppo grande, troppo dolorosa, troppo estrema, o semplicemente troppo diversa e altra da noi. E che non siamo in grado di raccontare i fatti semplicemente perché ne siamo a conoscenza. Siamo in grado di raccontre i fatti solo quando riusciamo ad attribuirgli quel senso interiore e profondo che gli dà vita. Il senso che ci vediamo noi, certo, ma comunque un senso valido perché vengano raccontati.

    Altrimenti, specie quando le storie sono vere, il confine tra raccontare e spettegolare diventa incredibilmente sottile.

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