Alla fine del mio girovagare tra piccoli reperti occasionali riguardanti la verità e la difficoltà di dirla – ascoltarla – accettarla, non ho trovato film migliore de “La schivata” per concludere il percorso. Dico subito che per me è un film molto doloroso. Primo perché dimostra che un film può essere fatto anche senza soldi, e questo mozza le gambe a decine di alibi per chi non riesce a fare il suo primo film, e secondo perché Marivaux fa parte di quei pochi autori che nel corso della mia formazione teatrale alla Paolo Grassi mi si sono scritti dentro per non uscirne mai più.

    Un gruppo di ragazzi della banlieue parigina lavora per mettere in scena “Il gioco dell’amore e del caso” di Marivaux. Uno di loro, però, che non prende parte alla commedia, si innamora davvero dell’attrice protagonista. E così l’intreccio sentimentale di Marivaux scorre parallelo a quello reale. I vincoli che imponeva la borghesia settecentesca giocano a ping pong con quelli dei quartieri carcere di periferia, della multietnicità, dei figli degli immigrati.  

    E il problema rimane lo stesso, perché è l’uomo che rimane lo stesso, maschio femmina contemporaneo o del settecento, povero o ricco. Il problema di accettare la verità su di sé e sui propri sentimenti, di riuscire a dirla, di riuscire ad accogliere quella dell’altro. E invece tribù, tabù, costumi, razze, fazioni. La lucidità di Marivaux lo fa sembrare un autore contemporaneo: come giustamente la maestra spiega ai ragazzi, “Il gioco dell’amore e del caso” dimostra nient’altro che non esistono né l’amore né il caso. Che non è vero che l’amore è affinità di spirito, ma che l’unico spirito che riconosciamo è quello del benessere, dello status. Che non esiste il caso, ma una gelida macchina che comunque esclude lo spazio vitale dell’eccezione, dell’anomalia, dell’originalità. Questa macchina si chiama calcolo, ed è inscritta in ognuno di noi. Travestiti, mascherati, truccati, ci riconosciamo comunque dall’odore: cittadini, immigrati, clandestini, servi e padroni. E ci prendiamo a vicenda replicando disperatamente la nostra classe con i suoi vizi e i suoi fili spinati.

     Ma…. questo è tutto meno che un film cinico. Perché entrandoci dentro, a questi vincoli e a queste costrizioni, si vede la voglia di amicizia, di fedeltà, di ideali, di bellezza. Il padre del ragazzo innamorato gli manda dal carcere un disegno alla settimana: i disegni raffigurano tutti magnifici velieri che solcano i mari. E questi velieri tappezzano le pareti della stanza del ragazzo. Quest’idea di andare lontano, di viaggiare, di conoscere, di amare, tiene legati insieme i padri e i figli, i carcerati, gli incensurati e i pregiudicati. Perché l’uomo rimane quello che è indipendentemente dalla sua condizione.

    E poi… il dire la verità, finalmente. Nella commedia di Marivaux i servi si travestono da padroni e i padroni da servi. Nonostante questo, servi e padroni si innamorano tra loro, ognuno pensando di aver sedotto uno di ceto diverso dal proprio, fino a sorpresa finale. Su questo si regge l’intreccio. E il punto è che con una maschera davanti, tutti noi siamo più disposti a dire la verità. Se nessuno sa chi siamo, possiamo dire cosa abbiamo dentro. Appena svelata la nostra identità, scatta l’inevitabile corazza. Così pare essere anche per il quartiere della banlieue: proprio l’affermazione delle rispettive identità sembra impedire l’emergere dei sentimenti autentici.   

    D’altro canto, ci siamo mai chiesti perché le chat siano un luogo così importante per il nostro tempo ? Perché consentono di aprirsi completamente, di non essere riconosciuti / giudicati, di essere ascoltati. Perché di colpo una malattia, un dolore, un tradimento, un vizio, un guaio diventano cose che si possono dire a qualcuno. Marivaux immaginava questo meccanismo attraverso l’uso della maschera. Mi viene in mente una magnifica battuta di una sua commedia: “Malgrado la commedia, cara Contessa, tutto questo è vero, perché loro (gli attori) fanno finta di far finta”.

    Se vi è capitato, tornando a casa o andando al lavoro, di sentire l’angoscia della solitudine, il bisogno di dire a qualcuno qualcosa che vi turba, la considerazione che intorno a voi nessuno potrebbe ricevere questa verità senza accusarvi – compatirvi – scandalizzarsi – odiarvi – recarvi danno;  se avete pensato anche una sola volta di abbassare il finestrino e parlare con quello della macchina ferma in fianco alla vostra, se insomma anche per voi con la verità è una questione sempre aperta, allora “La schivata” è il vostro film.

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