Un gruppo di ragazzi della banlieue parigina lavora per mettere in scena “Il gioco dell’amore e del caso” di Marivaux. Uno di loro, però, che non prende parte alla commedia, si innamora davvero dell’attrice protagonista. E così l’intreccio sentimentale di Marivaux scorre parallelo a quello reale. I vincoli che imponeva la borghesia settecentesca giocano a ping pong con quelli dei quartieri carcere di periferia, della multietnicità, dei figli degli immigrati.
E il problema rimane lo stesso, perché è l’uomo che rimane lo stesso, maschio femmina contemporaneo o del settecento, povero o ricco. Il problema di accettare la verità su di sé e sui propri sentimenti, di riuscire a dirla, di riuscire ad accogliere quella dell’altro. E invece tribù, tabù, costumi, razze, fazioni. La lucidità di Marivaux lo fa sembrare un autore contemporaneo: come giustamente la maestra spiega ai ragazzi, “Il gioco dell’amore e del caso” dimostra nient’altro che non esistono né l’amore né il caso. Che non è vero che l’amore è affinità di spirito, ma che l’unico spirito che riconosciamo è quello del benessere, dello status. Che non esiste il caso, ma una gelida macchina che comunque esclude lo spazio vitale dell’eccezione, dell’anomalia, dell’originalità. Questa macchina si chiama calcolo, ed è inscritta in ognuno di noi. Travestiti, mascherati, truccati, ci riconosciamo comunque dall’odore: cittadini, immigrati, clandestini, servi e padroni. E ci prendiamo a vicenda replicando disperatamente la nostra classe con i suoi vizi e i suoi fili spinati.
Ma…. questo è tutto meno che un film cinico. Perché entrandoci dentro, a questi vincoli e a queste costrizioni, si vede la voglia di amicizia, di fedeltà, di ideali, di bellezza. Il padre del ragazzo innamorato gli manda dal carcere un disegno alla settimana: i disegni raffigurano tutti magnifici velieri che solcano i mari. E questi velieri tappezzano le pareti della stanza del ragazzo. Quest’idea di andare lontano, di viaggiare, di conoscere, di amare, tiene legati insieme i padri e i figli, i carcerati, gli incensurati e i pregiudicati. Perché l’uomo rimane quello che è indipendentemente dalla sua condizione.
E poi… il dire la verità, finalmente. Nella commedia di Marivaux i servi si travestono da padroni e i padroni da servi. Nonostante questo, servi e padroni si innamorano tra loro, ognuno pensando di aver sedotto uno di ceto diverso dal proprio, fino a sorpresa finale. Su questo si regge l’intreccio. E il punto è che con una maschera davanti, tutti noi siamo più disposti a dire la verità. Se nessuno sa chi siamo, possiamo dire cosa abbiamo dentro. Appena svelata la nostra identità, scatta l’inevitabile corazza. Così pare essere anche per il quartiere della banlieue: proprio l’affermazione delle rispettive identità sembra impedire l’emergere dei sentimenti autentici.
D’altro canto, ci siamo mai chiesti perché le chat siano un luogo così importante per il nostro tempo ? Perché consentono di aprirsi completamente, di non essere riconosciuti / giudicati, di essere ascoltati. Perché di colpo una malattia, un dolore, un tradimento, un vizio, un guaio diventano cose che si possono dire a qualcuno. Marivaux immaginava questo meccanismo attraverso l’uso della maschera. Mi viene in mente una magnifica battuta di una sua commedia: “Malgrado la commedia, cara Contessa, tutto questo è vero, perché loro (gli attori) fanno finta di far finta”.
Se vi è capitato, tornando a casa o andando al lavoro, di sentire l’angoscia della solitudine, il bisogno di dire a qualcuno qualcosa che vi turba, la considerazione che intorno a voi nessuno potrebbe ricevere questa verità senza accusarvi – compatirvi – scandalizzarsi – odiarvi – recarvi danno; se avete pensato anche una sola volta di abbassare il finestrino e parlare con quello della macchina ferma in fianco alla vostra, se insomma anche per voi con la verità è una questione sempre aperta, allora “La schivata” è il vostro film.