Vincitore di due International Film Festival, quello di Rio e quello di San Paolo, selezionato dalla rassegna di Robert De Niro, il Tribeca Film Festival di New York, e dal Festival di Berlino del 2007, questo piccolo film è uscito in Italia Venerdì 6 giugno 2008. Ancora una volta prima di parlare dei film degli altri vien da pensare alla stortura del nostro sistema. Far uscire un film con così tanto ritardo e all’inizio di giugno significa aver completamente disinvestito su un percorso di cinema non commerciale, e non aver più nemmeno la voglia di competere e di inventarsi strade alternative di comunicazione, neanche da parte di chi questo film ha il merito di averlo portato in Italia.

      Cao Hamburger sceglie per il suo film un bambino bravissimo. E fa ruotare tutto il peso della storia sulle sue spalle, sui suoi sguardi, sui silenzi, e anche su quella fisicità acerba e riconoscibile dell’infanzia quando sta per confluire nella preadolescenza, che fa dei ragazzini qualcosa di universale e inconfondibile.  Tutto bellissimo, inutile stare a perderci parole, tanto vale vederlo. Ma essendo questa una radiografia, mi piace cercare di capire perché, nonostante sia veramente un ottimo lavoro, il film è rimasto un piccolo film, come molti lo hanno definito.

        Mauro, il protagonista, viene lasciato davanti alla casa del nonno dai due genitori, che “vanno in vacanza” come molti in quegli anni, perseguitati dal regime militare in quanto comunisti. Il nonno, però, è morto poche ore prima senza che i due genitori lo sappiano, e inizia per il povero bambino tutto un percorso di crescita fatto di un appartamento vuoto e di vicini di casa che sono degli illustri sconosciuti. Ci sarà spazio per tutto: per il percorso trionfale del Brasile ai Mondiali del 1970, per le prime cotte, per nuovi amici. Tutto narrato molto bene ma… tutto in attesa che i genitori ritornino.

       Il desiderio principale del protagonista è lì: che mamma e papà tornino a prenderlo, come avevano previsto, per i mondiali o per lo meno entro la finale. Ma la finale arriva – quella per noi dolorosa, vinta dal Brasile contro l’Italia – e i genitori ancora non si vedono. E’ qui che il film rimane piccolo. Perché la spina dorsale di una storia è la relazione che c’è fra un personaggio e ciò che gli manca per arrivare ad essere o avere – entro la fine  – qualcosa di completamente diverso rispetto all’inizio della vicenda. Se non c’è percorso, insomma, non c’è proprio storia. Ma per raggiungere un obiettivo, soprattutto per quello principale, occorre che il protagonista si adoperi, insomma che ci sia equilibrio fra lui e gli ostacoli che gli si parano di fronte. Se non c’è equilibrio, non c’è conflitto possibile.

       E’ questo il caso del film di Cao Hamburger. Il nostro piccolo Mauro può solo aspettare e sperare. Intanto vive cose, incontra persone, cresce a suo modo, ma l’asse della storia rimane ferma, bloccata in un’attesa il cui esito non dipende da nessuno. Senza movimento su quella linea, la vicenda non parte, non diventa drammatica, sebbene ci si senta coinvolti – eccome – dalla Grande Storia, dal Brasile di quegli anni e dalla lotta per la libertà. Ma nessuna scatola ambientale o storica esterna può sostituire la forza del dramma interno. E per dramma non si intende una sofferenza, ma un’azione che tenta di combatterla. Dramma significa letteralmente azione.

       E’ questo, secondo me, che fa uscire dal cinema quasi contenti ma non del tutto travolti. Perché  non abbiamo lottato mai sul fronte principale, e alla fine, proprio all’ultima scena la madre rispunta, sola, e riparte con il ragazzino. Sul padre, la battuta più bella del film: siccome era famoso per i suoi ritardi, la mamma dice a Mauro che papà è in ritardo. E Mauro rielabora così: “Ci ho pensato molto, e alla fine mi sono convinto che esiliato è uno che fa così tanto ritardo, ma così tanto ritardo, che alla fine non arriva più”.  Una grande idea poetica che chiude il film con una forte carica suggestiva liberandolo dalle soluzioni a volte pretestuose dei film di formazione, che alla fine spesso mostrano un personaggio dire cose di estrema saggezza tutte di colpo.

            Si tratta di scelte, ovviamente, e il film di Cao Hamburger verrebbe snaturato da un bambino di dieci anni che si attivasse in un mondo adulto per ritrovare i propri genitori. Non avrebbe senso e il film probabilmente non può essere che così. A volte si scelgono strade narrative anche consapevoli di alcune fragilità. Forse la fragilità, il sottovoce, sono le uniche vie per dire alcune cose in un certo modo. Perciò non credo proprio che si possa parlare di errori, anzi, un film così lo fa chi sa fare cinema. Diciamo che forse questi anni non sono particolarmente fausti per chi cerca di parlare piano.

0 risposte

  1. Non lo conosco Giovanni. Ma se dici che vale la pena vado a comprarlo. Buon Anno anche a te, e magari vediamoci per un caffé!
    Elisabetta

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