Bisogna imparare a salutare. Prima che sia tardi. Piccoli esercizi su cose di poco conto. Un vecchio maglione, una fotografia. Avere il coraggio di regalare o di buttare. Cominciare a vedere l’effetto che fa. Se senza maglione sono ancora io, il maglione non ero io.
Piccoli esercizi senza importanza. Azzardare di smettere di fare qualcosa che si è sempre fatto. Superare l’idea del sacrificio come contrizione di non si sa cosa e considerarlo come una porta che dischiude spazi infiniti di conoscenza e di libertà. Tutto quel che non è me, riempie la mia vita al posto mio, quindi perché me lo tengo così stretto? Perché offre anche delle garanzie.
Tutto quel che mi tengo stretto c’è e continua ad esserci come me lo tengo. Non cambia. Mi conferma nella mia esistenza. Mi salva da quel che temo più di ogni altra cosa: il grande cambiamento del tempo è la sua fine, il grande cambiamento della vita è la morte.
Il prezzo di questo tenere è che, per continuare ad esserci e a non morire, non nasco. La stasi della vita che mi tengo stretta è un siero dell’immortalità. Ma è anche un allucinogeno, perché il tempo finisce eccome. Finisce per tutti e per tutto, grazie a Dio. La vita che mi tengo stretta è pura fuga da quel che sono in realtà.
Salutarsi è una piccola azione che ci sveglia. Salutarsi davvero.
Bisogna farlo da molto presto, forse da subito, dalla prima volta che ci si vede, o da quando si capisce che sarà una storia importante. Non sappiamo se ci rivedremo, perché le cose cambiano di minuto in minuto. Per questo il presente è un’avventura: perché ha la qualità dell’avventura, che è il pericolo. Non esiste film d’avventura senza che il nostro eroe sia per un momento in mano ai nemici con le mani legate dietro la schiena.
Bisogna salutarsi ogni volta come prima di un’impresa, quando non sappiamo se torneremo o no. Con gratitudine, con felicità, accettando il rischio e guardandolo per quello che è: un regalo. Infatti correre il rischio di perdersi è un privilegio di chi ha avuto il bene di incontrarsi.
Bisogna decidersi a mollare questa irritante, pietosa scaramanzia che ci rende allergici a ogni discorso sulla fine dei tempi e su quella del nostro. Accettare che è grazie alla fine che la vita è viva e decisiva ogni attimo. La scaramanzia per cui non affrontiamo mai né dolore né morte è un retaggio magico infantile per il quale se non ne parliamo le cose non esistono.
Salutare significa cogliere la piena, maestosa nudità di ciò che siamo. Nulla ci appartiene. Non ci è mai appartenuto nemmeno nel momento della nostra più fulgida impresa, o della nostra più abbagliante bellezza. Mai. Lo abbiamo pensato, forse. E la vita ci ha attesi con pazienza alla salita.
La meraviglia di questa luce che ci trapassa e ci folgora sta in questo totale, arbitrario, semplicissimo e incomprensibile dono. Il singolo minuto che passa è un’impresa per ognuno di noi: non tutti ne vedremo la fine. Senza la bellezza di questo bilico che ci lascia sospesi tra entusiasmo e paura, la vita è mancata, rimane non colta.
Salutarsi è un modo di fare il tifo per l’avventura dell’altro. Perché è in viaggio come me, perché temiamo le ondate e indoviniamo la rotta a fatica. Perché tra marinai ci si aiuta.
I passeggeri dell’Aquarius hanno salutato tutto il loro mondo, il loro passato e la loro storia. Sanno molto bene che un minuto è lungo e che si tratta di un dono piuttosto che di un diritto. Noi forse un po’ meno. Domenica mattina alle 8, tra poche ore, approderanno a Valencia, dove li attende il cartello: Casa Vostra.
Un porto che si apre è la casa degli uomini che si incontrano. Che sono vivi in questo minuto. Che fanno il tifo per il minuto degli altri. E’ una cosa semplice. Il luogo per incontrare è l’altro, il tempo è il presente, il presente è questo preciso momento, che dura sempre.
Felice quel porto che domani si apre.