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Lavorare con i registi e gli autori della Paolo Grassi sul realismo è sempre un momento imprevedibile, solitamente bellissimo. Il problema del dire la verità in una storia è spinoso, in particolar modo per chi lavora all’interno di convenzioni recitative e drammaturgiche che permettono qualche nascondimento formale.

Così voglio fissare qualche punto, che magari può restare per chi stesse attraversando lo stesso guado che stiamo attraversando con i ragazzi nella nostra veranda estiva.

Innanzitutto la convenzione. Qualunque essa sia. La convenzione narrativa, recitativa, drammaturgica. Consideriamola come un guanto. La mano che lo indossa si muove veramente, compie azioni reali, non finge. Semplicemente è vestita. La Commedia dell’Arte non è meno vera di un film dei Dardenne. Semplicemente ha un vestito (che comunque hanno anche i film dei Dardenne). Se la Commedia dell’Arte fosse solo una questione formale, più o meno gli attori con un minimo di tecnica sarebbero tutti uguali. Ma non è così.

Il quid che li differenzia è esattamente la verità con la quale compiono le azioni che compiono all’interno di quel guanto.

Per gli autori non è diverso. La fantascienza è il genere più realistico che ci sia. Perché si tratta di creare un altro mondo con regole e coerenze interne pari a quelle del mondo reale. Dato un IF potente all’inizio, il resto procede secondo verità. Ed è esattamente su questo che si gioca il livello di una sceneggiatura di fantascienza: quanto posso crederci. Quanto mi rimandi alla mia vita e a me stesso.

Quando siamo preoccupati di dire la verità – e cioè che il nostro film sia credibile, appunto – volgiamo tutta la nostra attenzione alle scelte di merito. Lei può alzare la cornetta qui? L’alieno può essersi nascosto nello yogurt? Davvero il raggio che esce dagli occhi dell’extraterrestre fa guarire i denti cariati?

Ma ci dovremmo concentrare anche su questioni di metodo. Dire la verità in una storia significa occuparsi seriamente della verità del dire. In pratica: può essere che tu stia dicendo la verità, che i personaggi siano profondamente fondati. Molto bene. Ma il tuo dire è un dire percepibile? Ti stai occupando di accoglierci nella tua storia? Hai definito bene il mondo il genere e i personaggi? Sì, proprio come da manuale, perché i manuali a volte sono scritti per un motivo buono.

Cioè: non basta che tu abbia scavato e trovato qualcosa di vero. Ora devi fare in modo che quel qualcosa arrivi a noi. E’ il tuo lavoro. Organizza i segni, le scelte, la tattica in modo che mentre dici la verità sia anche vero che la stai dicendo. E cioè che possiamo comprenderla. Sintetizziamo? Non ce ne frega niente di te, del tuo stile e del tuo talento.

Noi vogliamo la storia.  Tu vuoi la nostra attenzione. Facciamo così: noi ti diamo fiducia e veniamo al cinema, tu ci garantisci che dirai quello che pensi ma anche che penserai a quello che dici. A come lo dici. A chi lo dici. Firmiamo?

Buon lavoro.

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