Quasi tutto quello che trovi è conseguente al modo in cui cerchi. E quasi sempre cerchi quando sai di non aver trovato, quando sai che ti manca qualcosa. Poi ci sono volte in cui non cerchi perché pensi che vada bene così. Insomma quando tutto è chiaro non ci sono molte domande da farsi.
Quando leggiamo una scena, ogni scena di qualunque sceneggiatura, è così. Le parole sono lì e sono stampate così chiare, così ferme, che non ci sono molti dubbi su quello che succede. Se lei chiede un bicchier d’acqua chiede un bicchier d’acqua, no? Non è che ci sia questa teologia da fare in merito.
Sembra del tutto inutile chiedersi cose tipo quando aveva bevuto l’ultima volta. Che per esempio se fossero 7 ore fa potrebbe davvero aver sete. Ma se fossero 10 minuti fa sarebbe strano. Magari è malata. O magari l’acqua non è quello che vuole. Magari le interessa la persona a cui lo chiede e non sa come fare ad attaccare bottone. Magari vuole scappare da un discorso. Quante storie ci stanno dietro lei che chiede un bicchier d’acqua?
Da che cosa nasce il nostro tirar dritto davanti alle scene? Perché si tende a pensare di aver capito le cose come stanno già dalla prima lettura? Di fatto autorizziamo la nostra mente a organizzare la storia ma non autorizziamo la storia a interrogare la nostra mente – e il nostro cuore e la nostra pancia.
Va da sé che interrogarsi e cercare significa aver accettato di non avere una risposta. Quando ti manca poco ad incontrare gli attori fa paura. Quando devi presentare un progetto, o parlare a qualcuno della tua idea, o cercare un finanziamento… è un disastro avere dei dubbi. Perché nonostante tutto è ancora vincente l’idea che una regia sia opera di qualcuno che ha qualcosa da dire e non opera di qualcuno che sta cercando e quindi è ovvio che non sappia ancora.
Una scena è la condivisione di un messaggio che il regista e gli attori danno al pubblico o è la condivisione di una ricerca aperta, che respira, che trema, che cresce e che rischia la vita a ogni battuta? Perché la vita è il prezzo della verità, che si tratti della vita che anima una scena o dell’esistenza delle persone.
Il meccanismo che blocca le domande è la paura.
Di non andar bene, di non avere idee geniali, di non poter accedere al circuito, di non sembrare sicuri di sé, di non dare la sensazione di padronanza della storia e della materia. La paura è paura degli occhi degli altri, che sono davvero gli unici dei che veneriamo con tutte le nostre forze. Essere pronti a piacere, essere giusti. Quindi forse aveva ragione Francesca, quando ancora a 8 anni mi diceva: “Meglio pecora nera che pecora trasparente”.
La paura è un programma etico ed estetico. Ci spinge a leggere le sceneggiature in modo reazionario. Perché ciò che è reazionario trova base sicura nella moltitudine. Ciò che è reazionario è anche banale e la banalità è una delle chiavi del successo numerico.
Perché noi temiamo ciò che è estremo e ciò che è estremista.
Oggi temiamo e tremiamo. Su ogni metropolitana, su ogni aereo, in ogni bar del centro. In ogni città. E quello che sentiamo sono letture nette, senza domande. Come quando noi leggiamo male una scena e la riduciamo alla forma più canonica che riusciamo a immaginare. Senza domande. Con i buoni e i cattivi. Senza chiederci nulla del perché lei voglia un bicchier d’acqua.
Ho sposato un medico e sono invecchiato nella convinzione di fare un lavoro assolutamente inutile. Mi dispiace dirlo ma è quello che sento ancora oggi nel profondo. Eppure oggi mi dico che se noi, nel piccolo delle nostre scuole, nella semplicità delle lezioni a ordine del giorno nelle quali siamo a tu per tu con un ragazzo o una ragazza che vogliono diventare registi, riusciamo a diventare delle trivelle senza pietà…. Se riusciamo a diventare dei trapani, se non ci accontentiamo di nessuna battuta, se ci facciamo domande che aprono mondi anziché darci risposte che confezionano prodotti, se esploriamo i problemi prima di risolverli…. forse il nostro lavoro può servire.
La pace oggi passa più dall’esplorazione che dal problem solving. Senza accettare di non sapere non si può entrare in nessun testo e in nessuna testa.
A differenza del rapporto con le nostre certezze, quello con la verità è mutante e prismatico. Girare, mettere in scena, è dare testimonianza di questa ricerca di contatto e una ricerca prosegue finché non c’è risposta. Va da sé – quindi – che finché c’è spettacolo non ci sia risposta. Credo sia così anche per la nostra storia di questi giorni, così uguale a quella di molti altri giorni per popoli davvero poco lontani da noi.
Se mai tornerò, se mai avrò la fortuna di tornare a lavorare con i giovani, se mai potremo insieme di nuovo imparare insieme facendo insieme, queste saranno le prime parole che leggerò al nostro primo incontro. Se mai ……