Qualcuno vira sul documentario. Alla fine si vive d’altro – corsi, film aziendali, backstage, spot – ogni tanto si gira un lavoro con tempi lunghissimi, perché il documentario non è prevedibile e organizzabile come un lungo, e finalmente si arriva ai festival. Dove vedi lavori anche bellissimi, con la presentazione di rito: “Quanto tempo hai girato per realizzare il tuo docu ?” E il regista: “Sono stati tre anni meravigliosi…” Solo una cosa sul mondo del documentario: qualche anno fa girarono un film strepitoso su un clown che andava per gli ospedali di guerra per far ridere i bambini. Non – riuscirono – a – venderlo.
Alcuni smettono. Come per un vizio, o per l’uscita da un’età infantile.
Inutile negarlo, questo tempo sospeso è difficile. Poi però guardo dal di dentro di che cosa vive un filmaker. Storie. Artigiani, medici, professori, operai. E le loro famiglie, i loro problemi intimi, personali, sociali. Dilemmi da superare. Rischi da prendersi. Scoramenti ed entusiasmi. Ce li hanno tutti. Allora penso che in certi momenti non ci sia modo di sapere come risolvere un problema, ma sia altrettanto chiaro cosa fare. Non perché rappresenti la soluzione, ma perché non c’è nient’altro che si possa fare. E nel caso di un filmaker è: continuare ad ascoltare le persone con le loro storie. Non rigirarsi nel proprio problema perché più ti occupi di te, più i tuoi personaggi diventano piccoli e lontani. Più ti metti da parte, più riesci a farti avvicinare dalle storie e dai drammi altrui.
Nonostante quello che l’imperante clima new age dispensa come consiglio – occuparsi del proprio benessere interiore, coccolarsi, coltivare la propria serenità, gestire le relazioni in modo che non ci feriscano, che mi sembra tanto la versione per bambini de “L’inferno sono gli altri” – credo che il punto decisivo per trovarsi siano proprio quegli altri là, con i loro inferni quotidiani, con le loro fatiche e la loro lotta. Quelli sì, con tutta la rottura di scatole che rappresentano, per chi scrive sono il paradiso.