“C’è un modo di coltivare la memoria insopportabile, commemorazioni in cui per ore si ripetono riti burocratici di una noia irritante: mille ringraziamenti barocchi, un profluvio di aggettivi del tipo ‘barbaramente ucciso nel fiore dei suoi anni da vile mano assassina’. Dicono di voler tenere viva la memoria, ma questo è il modo sbagliato, soprattutto se si parla davanti a dei ragazzi delle scuole: li vedi che si annoiano, non capiscono niente, inondati da nomi e citazioni di cui non conoscono il contesto, di cui non hanno nessuna idea.
‘I giovani hanno il dovere di sapere… devono ricordare… ‘ Ma allora raccontate loro qualcosa che valga la pena essere ricordato. Quando mi capita di partecipare a questi incontri, scelgo di parlare di mio padre come di un uomo normale, non di un eroe o di un marziano, di raccontarne debolezze e curiosità. Bisogna spiegare che gli eroi erano persone comuni, ma con la caratteristica di avere passione infinita per le cose che facevano, uomini con cui sia possibile identificarsi, che amavano il loro lavoro e lo facevano con scrupolo.”
Il libro di Mario Calabresi si legge tutto di fila. E ha la proprietà di portarci dentro quei giorni attraverso il punto di vista ora di un bambino, ora di un adolescente che cerca di capire cos’è successo quindici anni prima alla sua famiglia, ora di un uomo maturo che vuole ricomporre la memoria e forse anche trovare una pace.
La chiarezza di questi punti vista che cambiano di volta in volta nel piano del racconto, lungi dal confondere aiuta, fa sentire vive e vere le cose. Mario Calabresi è del 1970, e racconta di aver frequentato spesso la sala video della Sormani di Milano. Consultava metodicamente i microfilm con i giornali dei giorni dell’omicidio, e dice di averci anche visto del gran cinema, ad esempio Truffaut. In quegli stessi anni – ne abbiamo due di differenza – bazzicavo anche io la stessa sala. Chiedevo prima un libro, l’opera con testo a fronte della versione che ci era stata assegnata per il giorno dopo, latino o greco che fosse. La copiavo, la studiavo, e poi andavo di sotto in sala video, a vedere…. Truffaut.
Mi fa effetto pensare che magari siamo stati lì insieme, che chissà forse ci siamo “rubati” qualche film a vicenda. Perché fa effetto pensare che la storia ci possa essere passata accanto. Ti colpisce quando pensi che eri lì mentre delle cose di cui non sapevi nulla stavano accadendo. Prendere coscienza. Collocare una vicenda in un tempo e in uno spazio precisi. Le emozioni più sottili sono comunque sempre ancorate a un dove e a un quando. Questa forse è la memoria di cui Mario Calabresi parla.
Sì, è un libro intenso e pacato. Mi sono messo a cercare sulla rete il nome di Luigi Calabresi, e naturalmente viene fuori di tutto. Per cui, alla fine uno che in quegli anni era appena nato, non può che farsi un’opinione da lontano. Pare evidente che il commissario non buttò il povero Pinelli dalla finestra, ma quali fossero i suoi metodi e se fossero troppo duri è per me materia inaccessibile.
Ciò che è accessibile e molto bello è il tentativo di un figlio di ricostruire senso e memoria alla propria vita, a quella delle persone a lui care. Perché un personaggio è sempre alla ricerca del senso, dell’organizzazione degli eventi in un filo che tenda a un fine. E soprattutto “Spingendo la notte più in là” mi lascia una sensazione forte – non di quegli anni ma degli anni successivi, nei quali ero abbastanza grande per ricordare – e cioè che fosse tutto più vero. Che le cose che avvenivano fossero sulle strade, nelle piazze, nelle scuole. Nessun rimpianto per quel clima, dal mio punto di vista. Ma per il contatto con la realtà sì, moltissimo. E forse questo libro centra qualcosa di importante: raccontare una storia oggi ha anche il compito di riavvicinarci alla vita vera, quella che sempre più sfugge al nostro contatto. Spingendo il monitor, internet, la televisione, più in là.
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