Sundial in Sand

 

Mentre vado a trovare Nora la pioggia continua a starmi sul vetro. Si procede piano, tra un lavoro stradale e una coda per l’ora del rientro. La provincia di Milano nella sua spettacolare disarmonicità: capannoni, frammenti di campi, muri in gasbeton lasciati nudi. E l’intelligenza perversa di chi ha costruito: hanno usurpato migliaia di metri quadri all’agricoltura per i capannoni ma le strade non hanno più di una corsia per senso di marcia. Così i capannoni e le industrie hanno aumentato il traffico e le monocorsie hanno pensato a imbottigliarlo. Sotto la pioggia che non smette da giorni quest’incongruenza tutta lombarda diventa ancora più chiara.

Perdo un sacco di tempo – penso. Oppure devo imparare che questo è il tempo del percorso. Non faccio volentieri la pace con i miei bilanci sempre in rosso: troppo tempo perso e non certo per le code. In alcuni momenti mi sembra un grandissimo equivoco pensare al tempo come a qualcosa che passa. Lo penso come una forma: una forma che prende forma. Lungomare che tirano dritti per anni, nei quali sembra non dover cambiare mai niente, e spigoli di minuti nei quali la nostra forma si plasma in nuove dimensioni con una rapidità che dopo ci lascia interdetti. Ti guardi indietro e ti dici che solo due giorni, una settimana, un anno fa. La mente si scandalizza della cosa, la pancia no. La pancia sta con quello che viene. Sta qui e ora.

Man mano – se ci si lavora –  mente e pancia riescono anche un po’ a comunicare. A un certo punto è necessario smettere di giudicarsi per quel che non si è trovato e cominciare a interrogare quel che si è trovato, affinché ci riveli quello che cercavamo davvero. Quando fai questo passaggio poi ti chiedi: ma chi ha vissuto tutti quegli anni al posto mio? Gli anni in cui ero così sicuro che sarei riuscito a fare, a prendere, a diventare… E chi si è preso quegli altri: quelli del più recente disamore, nei quali l’amarezza per non aver raggiunto la mia immagine di me è stata dominante e totale, non essendo altro – in realtà – che un diverso modo per assentarmi da me stesso?  Cercare qualcosa o piangerla non fa differenza: non sei tu.

Ma alla fine ho due braccia, due occhi e due gambe e la cosa non è affatto scontata. Intorno c’è il mondo che si muove, persino la vita in questi capannoni in gasbeton si muove. Persino la coda. E ho pensato che la forma più alta di coraggio certe volte sia rimanere in ascolto essendo pronti ad accettare la risposta. A prenderla sul serio, dico. Su che forma ho, su che forma sto diventando. Fa paura come l’idea di ogni cambiamento ma quando succede ti accorgi che non devi opporre resistenza. Le curve si devono fare, se tiri dritto finisci di sotto e non vedi la prospettiva che la strada aveva preparato per te.

Credo sia questo il punto: mettere al mondo tutto quello che è venuto al mondo con noi, come dice Hillman. Forse più che di vivere la nostra vita si tratta di lasciare che la nostra vita avvenga attraverso di noi senza opporre resistenza. Senza opporre immagini di noi che vogliamo raggiungere o pianti più o meno disperati perché non le abbiamo raggiunte. Mentre sono al volante sotto quest’acqua il mio pensiero è all’appuntamento con Nora, al probabile ritardo, allo snervo della situazione, all’idiozia del piano urbanistico… insomma le mie mani sono sul volante ma io sono in dieci posti diversi, mediamente in guerra su più fronti. Eppure quel che è venuto al mondo con me ora si trova qui, su questa strada provinciale. Questa strada non può non essere un punto del mio percorso, perché quando sei davvero presente nessun momento è da buttare, nemmeno la provinciale con la pioggia.

Ecco forse cos’è: piantarla di guardare la meta con ossessione. Stare nel viaggio. Amare la propria forma che cambia perché la struttura che sei ti dice la funzione che hai.

E poi so che gran parte del tempo che ho perso – se non tutto – è stato impiegato per fuggire. Come tutti i personaggi dei film che funzionano. Non è scemo chi fugge, sa bene il morso del dolore e lo teme. E si fugge anche tutta una vita giocando, lavorando, sognando, anche conducendo un’esistenza faticosa e intensa. Anche facendo carriera. Qualche tempo fa alla fuga connettevo una certa vigliaccheria di fondo, ora no. In certi momenti la ritirata è la mossa migliore, a volte l’unica.

Alla fine arrivo. Il bar è al neon, avvelenato e spento come tutto qui intorno. Porte di vetro e alluminio anodizzato, macchinette del videopoker. E me la presentano: Nora. Dopo dieci minuti sono in un’altra forma. Poche parole e mi ritrovo nel pieno di una storia pericolosa e bellissima. Siamo in tre ad ascoltare il suo racconto e siamo esterrefatti dal fiume in piena che esce da una ragazzina così. Non ci sono più la provinciale, le mie paure, il tempo che passa, la pioggia e l’immagine di me. Uno spigolo di qualche minuto che cambia l’orizzonte. Non scrivo niente di lei, il nostro incontro ha altre vie da percorrere. Quando usciamo dal bar è buio e ha quasi smesso di piovere. Mi rimane un frase di tutto quello che ha detto, mentre guardo le case di questo posto che non riesco a non trovare orrendo: “Vivo qui di fronte, e la mia vita è bellissima”.

Ho circa un’ora di strada per arrivare a casa. Molto di più per arrivare a me stesso.

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  1. HO letto solo ora. Mi spiace non averlo letto a suo tempo. Come sempre illumini le storie di tutti noi. Entri, tocchi la ferita, brucia ma non c’è più bisogno di disinfettare. Grazie. Carla

  2. HO letto solo ora. Mi spiace non averlo letto a suo tempo. Come sempre illumini le storie di tutti noi. Entri, tocchi la ferita, brucia ma non c’è più bisogno di disinfettare. Grazie. Carla

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