La donna giace deformata dall’incidente. Le gambe orribilmente divaricate, il ginocchio ribaltato e la testa ruotata completamente. Di fronte a lei le due amiche. Si agitano, si domandano reciprocamente chi potrebbero chiamare. L’ambulanza, naturalmente. Pronto ambulanza? C’è la nostra amica che abbiamo fatto un incidente, venite perché mi sa che se no poi muore. La scena è palpitante, verissima. Si svolge di fronte a me, sul 15 che mi riporta a casa. La donna che ha subito l’incidente è posata sulle ginocchia di una bambina che avrà 6 o 7 anni. Di fianco a lei l’amica tiene le altre due donne e imposta i dialoghi della scena. Sono bravissime. Le protagoniste sono solo delle Barbie, ma la situazione è tutt’altro che un gioco. Negli occhi delle bambine c’è l’incidente, c’è l’urgenza disperata. Sono dentro la situazione. Così tanto dentro che ci finisco anch’io.

Prove di realtà. Teoria e tecnica della vita. E’ un duro lavoro imparare e il loro gioco è una dura scuola.

Sì, se la vita ce lo consente forse negli anni dell’infanzia lavoriamo sodo. Assegniamo i nostri primi significati, li teatralizziamo, ci crediamo come mai più in tutto il resto del nostro percorso. Agiamo ogni cosa e nelle cose che agiamo ci siamo tutti fino al midollo. Poi nel tempo smettiamo di lavorare e cominciamo a giocare.

Qualche anno fa stavo facendo un workshop per una grande azienda. In una pausa mi presentano con molto ossequio un manager. Uno abbastanza giovane, ritenuto un talento unico nel suo campo. Lui è … il Responsabile – Mondo. Dopo un po’ si palesa il Responsabile – Europa e io penso: beh, questo è un po’ meno grave dell’altro. Esiste sul pianeta un idiota così idiota da credere veramente a una carica del genere? Da accettare una definizione come questa? – Che lavoro fa tuo padre? – Il Responsabile Mondo. So che si tratta solo di gergo aziendale, ma le parole sono parole e sono connesse ai significati, perché a furia di chiamarci in un certo modo, di definirci o di accettare le definizioni che ci vengono date va a finire che un po’ ci crediamo.

E così diventiamo il nome che ci portiamo e cominciamo veramente, pericolosamente a giocare. Smettiamo di lavorare nel senso vero della parola. Smettiamo di fare la scuola delle emozioni e dei significati, del presente davvero presente, della scoperta emozionante faticosa e rischiosa di ogni momento e cominciamo a fare un gioco più sottile, pigro e letale: il gioco di ruolo.

Torno alle due bambine e cerco di isolare quale sia l’oggetto vero del loro lavoro. Credo che sia il crederci totalmente. L’esserci totalmente. La loro scena è così toccante perché è inarginabile come la vita, perché esonda dalle convenzioni, non si piega al decoro né tantomeno alla decenza. Il gioco del crederci rende vere le cose. Forse l’infanzia arriva fino al giorno in cui crediamo quindi vediamo, poi cominciamo a voler vedere quindi credere. E allora ci preoccupiamo di far vedere, dato che è su quello che si basano reputazione, stima e fiducia. Andiamo di titoli, onorificenze e trofei, stipendi macchine e tutto il resto perché vogliamo vedere per credere. Perché non ci siamo più totalmente, integralmente fino al midollo, appunto.

Noi che giochiamo ai professionisti, agli innamorati, ai vincenti e ai perdenti, noi che giochiamo ai mariti alle mogli e ai figli, che a ogni giro guardiamo il nostro piazzamento rispetto al contesto, se stessimo precipitando da una finestra e avessimo solo qualche secondo forse finalmente lo potremmo passare in compagnia di noi stessi. Potremmo esserci di nuovo integralmente, senza paura, finalmente a contatto, finalmente accesi come ai tempi in cui c’eravamo davvero e potevamo essere tranquillamente quel che eravamo perché non dovevamo ancora essere noi.

Pura vita che scorre, questo gioco delle Barbie davanti a me. Senza pareri, senza commenti. Pura azione di una luce accecante. Penso che potrei provare a scusarmi con me stesso per ogni volta che quello che vive al posto mio fa una cosa in mia vece e con la mia voce. Ma il ritmo delle scuse sarebbe molto impegnativo. Allora mi limiterò a formalizzare un non sono io tra me e me ogni volta che mi capiterà l’occasione. Forse la vita è molto più vicina alle storie che si raccontano i bambini piuttosto che al mondo sofisticato e complesso degli adulti.

Rintraccio la vita nei bambini e nei giullari. Nell’umorismo, perché l’umorismo svela il gioco pericoloso e perverso degli adulti, lo mette a nudo. Svela la nostra paura e il nostro bisogno di esorcizzarla con il potere. Un giorno mi hanno raccontato questa piccola cosa: Qual è la differenza tra un Cardinale e un prete? Nessuna. Solo che il Cardinale non lo sa.

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