Poi si fa silenzio. Quando si sono spente le luci, e i bambini devono ancora soffiarsi il naso o mettersi comodi,  gli adulti hanno ancora un sms da mandare o una caramella per la gola da scartare. Tutti quelli che sono seduti in sala – pena severe rimostranze da parte degli altri – si mettono a tacere per guardare il film. Non che sia stato così rapido arrivarci. Non lo è mai a meno di non abitare di fronte alla sala. Nel panorama di quello che viene proiettato ti eri prima messo a cercare se c’era qualcosa che ti interessava.

    Guardarsi in giro, cercare una storia che abbiamo voglia di sentirci raccontare. Non è detto che il film che vedrai ti soddisferà, e fa parte del gioco. Un gioco serio. Perché quello che nutriamo è un desiderio profondo, e i desideri profondi molto difficilmente vengono soddisfatti davvero. Se hai sete bevi e la sete ti passa, ma se hai il desiderio di vivere esperienze intense che ti rimettano in contatto con te stesso, non è detto che funzionerà. E’ la differenza che passa, come insegnano gli psicologi, tra desiderio e bisogno.

    Spinti da questo desiderio – ognuno il suo – ci ritroviamo in macchina, cerchiamo parcheggio, magari piove o siamo in ritardo o non abbiamo prenotato e non sappiamo se entreremo. Insomma, oltre che un processo di scelta c’è anche una fatica proprio fisica. Il tempo che sta attorno all’andare al cinema supera quasi sempre la durata del film. Ma ne vale la pena, dato che più o meno continuiamo a farlo.

    Dunque la luce si spegne e la storia comincia. E ognuno di noi si riversa con la propria aspettativa nella stessa storia. Condividiamo una cosa importante: il silenzio che facciamo per poterla seguire. Non è poco, significa che riteniamo – tutti – che quella storia valga la pena di essere seguita, anche se certamente alla fine i nostri pareri saranno i più diversi. Ma quel silenzio è qualcosa di simile, forse, a quel terzo che fonda l’uguaglianza, che non siamo né tu né io, e che ci permette di comunicare. La storia che ci viene raccontata.

    Nella quale, naturalmente, sia tu che io ci rispecchiamo in modi e con sentimenti diversi, ma  della quale entrambi sentiamo il desiderio. In sala tutti insieme contemporaneamente assistono a un racconto, in un silenzio che fa terreno comune ma al tempo stesso permette a ognuno di entrare profondamente nella propria intimità e nelle proprie emozioni, pur seduto braccio  braccio con il vicino.

    Forse qualcosa di buono, questo tanto vituperato relativismo ce l’ha lasciato. Nel senso che non riusciamo più a condividere né fede né certezze – non solo con gli altri, a volte anche con noi stessi: divisi e incerti nel midollo delle nostre idee. Però sappiamo ancora desiderare.

    Si tratta di capire che questo atteggiamento consolatorio perenne  della società – non sei mai solo, 24 ore su 24 per ogni cosa, dai negozi ai programmi televisivi a tutto il resto –  è in realtà un attentato allo spazio che ci serve per ascoltare davvero come si chiama il desiderio irrisolto che portiamo dentro. Credo che alcune cose in questo senso andrebbero rivalutate. Naturalmente, per quanto mi riguarda, ogni via di racconto dell’uomo su se stesso: dal silenzio materico della scultura alla forma volatile della musica.

    Questo terzo che fonda l’uguaglianza e l’individualità di ognuno di noi, forse, potrebbe essere cercato proprio nel nostro desiderare. Credo che il relativismo abbia avuto il merito di buttare giù le risposte e il difetto di nascondere anche le domande. Magari è lì che stiamo, in quello che non siamo ancora riusciti a capire e a sentire.

 

0 risposte

  1. Caro Giovanni, questa volta sono d’accordo con te.

    Ritrovarsi nel silenzio, il silenzio come sentimento di una trascendenza non assertiva, non impositiva, che rifiuta di farsi potere, ma solo comunione.
    Il silenzio come spazio fra le parole, senza il quale le parole stesse non potrebbero significare.

    Ma anche, il silenzio come momento della domanda, dell’interrogazione su quel film che ci capita di vedere.

    Ecco, il relativismo ha il merito di far tacere per un attimo le risposte.
    Ma ha anche il merito, credo, di lasciar spazio alla riformulazione di molte e nuove domande. E poiché le domande, a differenza delle risposte, sono di principio infinite, ognuno si pone le domande che crede. E le differenze nascono lì. Le risposte seguono come trascurabili corollari.

    Grazie per questo bellissimo spunto,
    Raffaele (sommerso dai corsi, ma a presto)

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