Il luogo della morte è dappertutto. Nelle aree dismesse fuori e dentro di noi. Il tempo della morte è dappertutto. Fine corso, fine vacanza, fine relazione. Un sacco di fini e un sacco di vuoti, un groviera esistenziale nel quale siamo immersi dalle cose grandi ai dettagli. Naturalmente più si invecchia e peggio è.

L’altra sera sono rimasto in auto un’ora aspettando Samuele all’uscita da Kung Fu. E’ un’ora che amo perché in quell’ora studio. E di settimana in settimana adesso la luce rimane sempre più a lungo sulle pagine. Ma il parcheggio è – appunto – una vera discarica. Un vero luogo di abbandono e di morte. La luce dell’altra sera, però, era così satura e tagliata che le carabattole, i detriti, i ciuffi d’erba tra i bidoni di vernice… erano quasi belli. Anzi, erano bellissimi. Erano tutta una storia.

Ancora una volta sono stato sorpreso dalla luce che è più importante di quel che illumina. Dall’importanza decisiva dello sguardo. E ho pensato che quello fosse un perfetto esempio di buon funzionamento dello stomaco. Non tanto lo stomaco che ci vuole per scrivere una storia, dico proprio quello che ci vuole per vivere. Lo stomaco che ingurgita cadaveri e cose morte e che fa avvenire dentro di noi il miracolo che trasforma la morte in vita.

Ad ogni respiro siamo sarcofago e culla. Tomba del cadavere mangiato – fosse anche cadavere di lattuga – e culla di tutto quello che diventa sangue. Ho pensato che il mio stomaco ne sa più di me. Che racconta storie molto meglio di me. Imparassi da lui. Perché la storia che racconti è il luogo della trasformazione di quel che hai digerito della vita. Proprio nella fine delle cose, delle storie, dei semplici corsi scolastici che si chiudono. Proprio nel finire e nel putrefarsi della memoria che man mano sbiadisce, sta l’accesso di nuovo sangue al cervello, allo spirito… e allo stomaco.

Ed è incredibile come la vita attraverso una serie di chiusure e di fini ti restituisca a piani più sottili e più alti un’energia raffinata e pulita. Solo poche volte mi rendo conto che il ritorno è diretto. Il più delle volte mi trovo a pensare qualcosa e mi chiedo come sono arrivato a cambiare quest’idea, come sono arrivato a svilupparla, come mai oggi dico cose così diverse da anni fa… e vedo in questo cambiamento il frutto di questo incessante e non del tutto consapevole processo di digestione della vita.

Scrivere è dare forma a questo processo di raffinazione degli eventi che incontriamo. E’ estrarre vitamine e fosforo dai giorni. E’ bere l’acqua che filtra nella terra e restituire ossigeno con un processo sommerso e silenzioso. Quindi mi viene in mente, intanto che il sole scivola e accarezza con la stessa grazia la ragazza che passa e le cacche dei cani, che digerire la vita significa anche permettere alla vita di lavorare in noi. Permettere all’acqua di entrare, fare il suo percorso. Accettare che l’esistenza sia più consapevole di noi di quanto non lo siamo noi stessi.

L’esistenza sa. Il nostro stomaco sa anche quando noi non capiamo. Fa il lavoro per noi e trasforma un pezzo di pane in energia per le idee. Alla fine… anche l’esistenza ci digerirà. Trasformerà il nostro passare in memoria. Non so perché ma trovo questo pensiero di una radiosa allegria. Mi fa sentire parte di qualcosa di immenso a cui appartengo secondo qualche legge che non ho ancora capito. Essere stomaco. Sarcofago e culla. E mi viene in mente la chiusura di Perché Bodhi Dharma è partito per l’Oriente: Io so che nell’universo non sono nulla, ma so che nell’Universo non c’è nulla che non sia io. Andiamo, per qualche detrito, un tramonto e una discarica…

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