Attraverso Facebook, l’amico Christian Angeli mi inoltra questo invito:

“In un periodo in cui la stampa, voyeuristica e morbosa, sembra attribuire alle donne come unica professione “il lavoro più antico del mondo”; riscopriamo le grandi donne del passato, per permettere a quelle del presente di avere modelli diversi di identificazione…
Scegli una grande donna della storia e usane la foto nel tuo profilo.”

Ci penso un po’ e alla fine scelgo lei: Suzanne Schiffman. La mano narrante di tante storie che hanno accompagnato la mia giovinezza. C’è lei nei dialoghi e nei personaggi che ho amato di più tra i 16 e i 30 anni. Una donna così non poteva aver avuto una storia semplice. Per completezza e precisione, copio e incollo quel che si dice di lei su wikipedia. Se posso dire, per me la grandezza di Suzanne Schiffman sta nell’averci raccontato personaggi in preda alle passioni e alle emozioni più forti, averli fatti andare oltre le righe di quella che chiamiamo normalità. E averlo fatto con empatia e con amore, senza alcuna distanza. Amava ciò che raccontava per quello che era, senza filtro. Passione pura. Pura vita. Un talento tutto speciale che significativamente albergava in una donna. Sapete cosa penso? Penso che se fosse viva oggi e le venisse commissionato un film sul nostro paese, saprebbe essere materna  e appassionata anche verso i papponi decadenti che ci governano e verso quelli decaduti che fanno finta di fargli l’opposizione. Per chi non la conoscesse, dunque, ecco chi era Suzanne Schiffman.

 

Suzanne Schiffman, pseudonimo di Suzanne Klochendler (Parigi, 27 settembre 1929Parigi, 6 giugno 2001), è stata una sceneggiatrice e regista francese.

Di origine ebrea, durante la guerra nascondeva con una sciarpa la stella gialla che era obbligata a portare sugli abiti per potersi recare agli spettacoli cinematografici e teatrali. Quarant’anni dopo riporterà l’episodio nella sceneggiatura del film L’ultimo metrò.

Giovanissima, nel dopoguerra fa parte di un piccolo gruppo di cinefili parigini. La sua formazione cinematografica è dovuta alle centinaia di pellicole viste nei cineclub e nella Cinémathèque, di cui è frequentatrice assidua. Così conosce anche il giovane François Truffaut con cui condivide una visione del cinema e l’apprezzamento per molti cineasti. Ne nasce un’amicizia e, in seguito, una collaborazione professionale che durerà fino alla morte del regista.

Dopo un soggiorno negli Stati Uniti e in Messico, torna in Francia dove collabora ai dialoghi di Paris nous appartient di Jacques Rivette. È l’inizio di una lunga carriera che la vedrà ricoprire praticamente tutti i ruoli possibili dietro la macchina da presa compreso quello di regista (oltre ad una breve comparsa come attrice in L’uomo che amava le donne).

Oltre che con Rivette – con cui lavorerà in numerosi altri film – collabora con Jean-Luc Godard – “Une femme est une femme”, “Le mépris”, “Pierrot le fou”, “Week-end” e “Le petit soldat” -, con Pascal Thomas (“Pleure pas la bouche pleine”), Gérard Brach (La barca sull’erba), ma è con Truffaut che stabilisce un sodalizio lungo e proficuo a partire da Tirate sul pianista (1960) per arrivare a Finalmente domenica! (1983), l’ultimo film del cineasta francese.

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