Scrivere un racconto autobiografico – come nel caso di Luciano –  fa diventare naturali  cose che quando scriviamo storie rischiamo di perdere. Questo per un motivo molto semplice: esiste un contatto diretto e profondo tra noi e quello che stiamo dicendo. E siccome i protagonisti dei nostri racconti autobiografici siamo noi, esiste un contatto diretto e profondo tra protagonista e storia che si sviluppa.

Resta che tutti noi abbiamo vissuto storie ma non tutti sappiamo raccontarle nel modo attraente, coinvolgente e divertente che Luciano ha usato. I fatti sono la cosa che vediamo. E i fatti in questo racconto hanno un valore di per sé. Sono colorati, concreti, magnetici, riconoscibili. Ci sono moventi semplici e azioni chiare. Un ragazzino appostato in agguato attende una mosca. Preparazione, attesa, esecuzione.  Alla fine della prima parte dice:  “Io le prendevo perché… servivano”. Il movimento narrativo che fa è qualcosa che nel cinema è congenito. Mentre nella vita reale quando c’è un problema troviamo una soluzione, nel cinema le soluzioni ci svelano che c’era un problema. Se vediamo uno che beve deduciamo che doveva aver sete.

Quando questa divaricazione tra soluzione e problema aumenta – se cioè la cosa diventa meno intuitiva che con il bicchier d’acqua – il personaggio diventa più misterioso e affascinante, la proiezione di senso sulle azioni scatena la nostra attività intellettiva ed emotiva: perché lo starà facendo? Che cosa sta cercando? Che senso avrà? Come pubblico, cerchiamo  sempre il problema data la soluzione. Nel caso del ragazzino Luciano, lo svelamento del movente arriva in coda a tutta la preparazione. Questo ci dà l’idea di uno sguardo che parte da fuori e pian piano si avvicina al personaggio e gli entra dentro. Significa legare il profondo al mondo e questo è meraviglioso.

Poi, arriva questa madre. E la cosa fa un salto di livello, come le buone storie dovrebbero sempre fare. Non conoscevamo l’obbiettivo dell’azione del piccolo Luciano. Ora lo conosciamo: pescare. Ma non ci potevamo aspettare il pescatore. Una madre che somiglia tanto all’incontro con la dea del viaggio dell’eroe. Un personaggio quasi sovrannaturale, fata dolcissima e forte passata da questo mondo a far nascere bambini e a tirar fuori pesci dall’acqua. La scena è bellissima: bambini che sondano il sommerso attraverso gli indizi di un galleggiante, vicino a questa mamma che sa quando tirare perché conosce il sommerso – “tira fuori”  bimbi dalle pance.

Il punto è che adesso siamo consapevoli che l’obbiettivo era – come in tutte le buone storie – nient’altro che la tappa esteriore e concreta per raggiungere il grande desiderio finale: essere importante per quella fata. Un valore interiore così determinante che l’appellativo ciapamosch non mette paura al nostro piccolo protagonista. E’ un protagonista, quindi ha un’interiorità forte che proietta senso sulle sue azioni.

Non è da meno il contrasto che esiste fra l’azione fisica di Luciano e il desiderio profondo che la ispira. Luciano costruisce armi, prende la mira, spara, uccide. Perché… cerca amore. Cerca di ricevere e di dare amore alla mamma. Quando la forbice tra azione concreta e significato attribuito è così divaricata, le storie ci aiutano a capire che siamo uomini con identità e con punti di vista specifici, che siamo unici. Quando le storie fanno questo ci spingono a vedere la pesantezza inutile di molti dettami di buona morale o di buon senso: questo non si fa, quello invece sì…. ma quando c’è un desiderio profondo, ogni astrattezza viene meno e il mondo diventa il luogo concreto in cui il percorso verso il nostro fine si articola.

Libera da questi dettami, la madre con le stesse mani con cui fa nascere, uccide. Perché quell’uccidere è nutrire e cioè far crescere, che è la cosa più coerente con l’aver fatto nascere. Ultima preziosa perla che Luciano ci ha regalato in questo racconto: l’azione che mangia se stessa. Hai fatto nascere, ma per far crescere devi uccidere. Accettare la contraddizione. Accettare la logica della vita che non è mai ricomponibile nella logica della cultura, mai fino in fondo. Felicità dei ragazzini che prendono il pesce che salta sull’erba e inconfessabile pietà per la sua morte atroce. Divertimento e paura. Vita e morte. Insomma, una piccola, bellissima storia.

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