Alcune cose per me. Per ricordarmele e per chiarirmele. Un ripasso di alcune condizioni essenziali per raccontare una storia. Parto dalla prima.
Starci dentro. Significa non starne fuori. Giudicare è stare fuori. Analizzare è stare fuori. Osservare è stare fuori. Lo si può fare con dedizione, passione e intelligenza. Ma sono azioni che creano distanza. La distanza è sicurezza. Per cui ecco subito la seconda condizione.
Rischiare. Prendersi un rischio totale. La caratteristica che mi interessa del rischiare è che rischiare è presente. Non si rischia al passato e nemmeno al futuro. Si rischia ora. Per cui posso mettere insieme due pezzi: starci – dentro – ora. Niente passato, mentre si racconta. Intendo: niente passato personale. Non parlo dell’autobiografia: intendo le nostre opinioni analitiche e valutative delle cose, che provengono dal nostro passato. Dalle nostre idee acquisite prima, dalla nostra cultura, dalle nostre appartenenze sociali, religiose, sessuali. Niente passato significa rischiare di perdere il nostro punto di vista consolidato, che se abbiamo un minimo di talento può anche aver rappresentato nel corso degli anni la fonte del nostro carisma e della nostra riconoscibilità.
Ecco, tutte quelle cose lì che hanno sempre funzionato alla grande. Via. E non dico di perderle. Dico di sospenderle. Lasciare la nostra mente e il nostro cuore liberi di andare in giro e di interrogarsi. Provare a non giudicare il personaggio di una madre che defenestra una bimba di due mesi. Sentire la sua pancia che sente l’esigenza di buttare questa bambina. Non attivare il nostro passato di convinzioni che ci separano da lei, che fanno di noi una comunità sana, sicura di sé, con le sue certezze. Sentire quella pancia usando la nostra significa sentire la mamma assassina che c’è in noi. E scoprire il miracolo di veder diventare quella mamma la mamma disperata. Precipitando dalle nuvole delle nostre personalissime e rigide idee del mondo e dei valori, si provano ebbrezze mai viste.
E’ come… apparecchiare la tavola. Posso vedere la mia mente con tutti i suoi cataloghi di cose giuste, sbagliate, belle e brutte, condivisibili e deprecabili. Posso vedere i cassetti nelle quali queste cose sono riposte. E con amarezza posso vedere anche la mia paura di vagliarle personalmente, il mio aver accettato che vi fossero riposte da altri. Poi posso vedere la vita che scorre fluida e rimescolata. Nelle menti di moltissimi dei miei allievi vedo la stessa situazione. Nonostante siano figli di internet e fluttuino agilmente su facebook, nonostante siano interculturali, intersessuali, interreligiosi e tutti gli inter che conosciamo… alla fine anche il loro pensiero è vincolato da automatismi di cui spesso non sono consapevoli.
Apparecchiare la tavola, dicevo. Nei cassetti dove tutto è riposto in ordine, non succede granché. Bisogna avere il coraggio di separare le forchette dalle forchette, i coltelli dai coltelli. Mischiarli. La storia è un’occasione: vengono amici per cena. Se metteremo in un posto solo tovaglioli, in un altro solo bicchieri e così via, nessuno mangerà. Se mettiamo insieme quel che la nostra mente tiene rigidamente separato, esplode il disordine e la vita fluisce torrenziale. Allora arrivano piatti, parole, sguardi, sorsi, emozioni. Lasciare che le cose vadano insieme adesso, senza permettere al passato di bloccare tutto con le sue certezze acquisite.
Stare attenti piuttosto che stare concentrati, come dice Declan Donnellan. Analizzare e giudicare significa parlare della propria mente e di sé. Significa essere concentrati su di sé e sul proprio dar senso alle cose. Essere curiosi significa seguire le cose con attenzione, senza giudizio. Per vedere dove vanno a finire fuori e dentro di noi. Se vogliamo che le storie ci portino da qualche parte dobbiamo permettere loro di farlo. Dobbiamo accettare la mano che ci tendono per accompagnarci da qualche parte, fidarci di loro. Sospendere il nostro guardiano che dice no, non andare, è pericoloso. Ti hanno sempre spiegato che non si fa, che non è così, che non va bene. Il nostro passato che blinda il flusso della vita e le sue mille possibilità.
Condizioni essenziali, ma non sufficienti…
sta succedendo qualcosa, mi pare…
abbraccio
Liz
Quando arrivò la notizia dell’efferato delitto lasciò tutti sgomenti. Le bocche rimasero aperte, vuote di suono e di respiro. Tutti a chiedersi come fosse possibile che l’amico gentile, uno di noi, avesse compiuto quel gesto così incomprensibile e violento. Tra i tanti successivi commenti, qualcuno suggerì che forse era il caso di prendere le distanze da un evento così clamoroso. Non era opportuno venire associati ad un simile fatto di cronaca. Avrebbe potuto nuocere all’associazione.
Le distanze, dunque furono prese.
Cominciò una sorta di deriva, un movimento irreversibile di allontanamento. Alla fine nemmeno più si pronunciava il nome del colpevole dell’efferato delitto. Svanito, cancellato, cassato.
Una volta incontrai F. che mi disse, quasi sussurrando, che “proprio non riusciva a capire come fosse potuto accadere, come si potesse arrivare a tanto”. Ricordo il sapore metallico che ho sentito sulla lingua. “Io, invece, credo proprio di capirlo” le ho risposto. Le ho parlato di quello che chiamo “l’effetto dobermann” dal mito che voleva che il cranio di questi cani fosse troppo piccolo per ospitarne il cervello e che questo conducesse inevitabilmente alla pazzia, una pazzia per di più rabbiosa, a causa del dolore provocato da questa condizione patologica. Se sperimenti per una volta “l’effetto dobermann” sai che può portarti ovunque e a compiere qualsiasi cosa, anche quello che non penseresti mai di poter neppure pensare. Ho cercato di spiegarle il dolore, la visione che si restringe, la sensazione di soffocamento, la necessità di fare qualcosa che rompa, scardini, interrompa. Il cervello grida “tirami fuori” e tu devi tirarlo fuori. Il come farlo è… qualunque cosa. Mi guardava F. come se non avesse la minima idea di cosa stessi dicendo, come se le stessi parlando in una lingua incomprensibile.
Da quel giorno ha preso le distanze anche da me.