C’è una notizia con la quale prima o poi dobbiamo fare i conti. La Terra non è Marte. So che può dispiacere ma si dà il caso che sia così e che non ci si possa fare nulla. Inutile tentare di raccontare storie per far sì che la cosa avvenga. Questa è una condizione difficilissima da accettare, a volte. Perché una delle eredità più pesanti del nostro passato didattico e formativo è che le storie hanno sempre un messaggio. Il messaggio è teso a qualcosa di abominevole: l’idea di dire al mondo qualcosa che lo possa rendere migliore secondo il nostro modo di vederlo. Il paradosso è che se tutti i narratori facessero così, il pianeta verrebbe inondato di messaggi contraddittori e incompatibili tutti tesi allo stesso fine: rendere il mondo migliore secondo il punto di vista privato di chi scrive.

Ma al di là di questo è proprio la posizione narrativa che diventa perdente. Raccontare significa sentire addosso e dentro e voler condividere quel che si sente. Chi scrive vuole incontrare l’altro, chi manda messaggi  lo vuole solo cambiare. Vorrei chiarire che non si tratta di una rinuncia, si tratta di scegliere la strada più esaltante, più vera, più piena d’amore che si possa. Diventare l’altro per un po’. Vedere dal suo punto di vista. Scoprire cose sconvolgenti solo sedendosi dall’altra parte del tavolo. Sentire gli odori e scatenare ricordi di volti, di voci. Chi sta scoprendo non sa, chi manda messaggi sì. Per raccontare bisogna smettere di voler cambiare il mondo e cominciare a viverci.

Questo è un obiettivo di integrità, mentre il messaggio che scorre dentro la storia è un’azione compiuta con un secondo fine. Perché non dare direttamente il messaggio? Perché distorcere la vita affinché dimostri una nostra tesi? Quindi al niente passato di qualche giorno fa mi sento di aggiungere niente futuro. Quando sono riuscito a scrivere storie è perché ero innamorato. Volevo stare nel mondo che raccontavo. Viverci. Incontrare i personaggi del mio film. Sarò sincero: forse questo è un modo infantile o egoista di lavorare, un modo per fuggire dalla realtà quotidiana. Può essere che sia così.

Però. La gente che segue una storia non vuole dimenticarsi per un po’ di se stessa e dei suoi problemi? Non vuole fare un salto in un extra-mondo dove non ci siano il marito o la moglie che sono un massacro, piuttosto che il capo ufficio o la collega. Piuttosto che… se stessa. La gente chiede anche di essere mandata in vacanza per un po’  da se stessa,  dalle proprie paure e dai propri pensieri. E stare dall’altra parte significa avvitare bulloni, stringere viti, lavorare con la pesantezza delle strutture e delle regole per poter regalare un volo a qualcuno. Perché scesi dalla storia tutti siamo liberi di pensare quello che ci pare della vicenda e dei personaggi. Nessun messaggio ci deve condizionare. Ma quel che sappiamo di noi – all’uscita da una storia – è che siamo in grado di staccarci da noi. Che non coincidiamo con noi. Che possiamo prendere le distanze da quello che stiamo vivendo, che siamo di più di quello che facciamo e di quello che diciamo.

Ecco secondo me cosa deve fare una storia. Staccarci da terra. E come fai a portare qualcuno in volo se non ci sei stato, se non ci vivi continuamente? Faresti un’immersione con una guida che non sa come usare il respiratore? Il pubblico si deve fidare, deve sentire che in quel mondo che gli stai raccontando ci sei stato davvero. Non parlo di astronavi ma di mondi interiori, per cui le astronavi non sono un problema perché ne rappresentano solo l’estroflessione nello spazio.

Adesso l’ultima cosa. La più dolorosa e difficile per me. Ha a che vedere con il passato il presente e il futuro e con i cassetti della mia mente sempre così ordinati dalla paura che qualcosa possa accadere. La questione del volo. E’ vero, raccontare storie è far volare la gente. Questo però non significa che l’autore debba elevarsi fino ai concetti più rarefatti e sottili. Volare significa togliere le certezze ed essere finalmente sereni. Volare non significa toccare le nubi. E’ togliere il pavimento.

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  1. Ma perché se mi si dice che toccherò le nubi sono contenta e se mi si dice che mi si toglie il pavimento sprofondo nel terrore? Abbiamo bisogno di credere che toccheremo le nubi, se ci crediamo davvero, se pensiamo di avvicinarci alle nubi, non ci accorgiamo neppure che il pavimento è crollato.

  2. E’ proprio il tuo terrore che crea il pavimento, secondo me. Un terrore che provo anche io. Ma non ne abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno di giudizi già pronti a cui sentiamo di appartenere. Abbiamo bisogno di incontrare veramente le cose. Essere senza pavimento è questo. Se poi vuoi addirittura le nuvole, bisognerà pur fare i conti con il fatto che questo terrore c’è e che continua ad asfaltare strade di certezze indiscutibili. Però anche il mio, come sai, è un punto di vista. In movimento…

  3. In un romanzo di Douglas Adams il protagonista scopre che un tempo gli uomini sapevano volare, e riesce a riappropriarsi di questo segreto da lungo tempo perduto. Il segreto del volo è semplicemente che bisogna dimenticarsi di cadere… Proprio come dici tu.

    Un abbraccio.

  4. Il pavimento esiste da quando siamo nati…prima galleggiavamo dentro le nostre madri e non sentivamo la forza di gravità che ci costringe a mettere i piedi in terra. Galleggiare è bello, è un po’ come volare, ma non possiamo negare di avere bisogno di un pavimento, possiamo volare per un po’, anche per anni, ma poi dobbiamo appoggiarci. Il pavimento non è una certezza, è una necessità. La certezza ti darebbe un pavimento sempre uguale, sempre quello e invece la necessità ti porta a sperimentare tanti tipi di pavimento, anche scale mobili, anche montagne russe, anche piste d’atterraggio e di partenza…

  5. I costruttori di pavimenti sono stati bravissimi. Ideologie, chiese, appartenenze. Un uso geniale delle nostre paure. Senza pietà. Fino ad arrivare a convincerci che noi siamo le nostre paure. Fino a convincerci che non si tratti di paure ma di necessità. E poi diciamocelo: che pacchia essere sollevati dalla responsabilità di interrogarci sul senso di ogni cosa perché qualche manuale di riferimento ci spiega già cosa ne dobbiamo pensare… che meraviglia quest’asfalto preparato così bene davanti a noi… ma anche questo è solo uno sguardo. Posso dire solo: oggi vedo così. Non so altro. Se non che sono felice dei passaggi di tutti da questo piccolo blog. grazie.

  6. mmm, non so, potrebbe anche essere che per una vita uno si sia messo in un angolo, a guardare le posizioni degli altri, a sentire inadeguata la sua, a non sentirsi all’altezza per esprimere il proprio reale pensiero. E poi accade qualcosa di miracoloso, finalmente si sente degno e inizia a gridarlo. Modulare il grido è forse un allenamento utile, costruire nuovi mondi è il punto di arrivo. Mondi di parole, intendo, che partono necessariamente dalla chiarezza di un pavimento (siamo una minoranza esigua, il 29% si dice, ad aver capirto come sia fatto il pavimento…), che giocoforza dovrà frantumarsi 🙂
    ciao Gio
    Liz

  7. Ciao Gio, probabilmente ho sbagliato il primo invio (la ruggine! dopo tanto tempo..). Ora mi riferisco alle ultime tue due righe. Stare attaccati al pavimento ovviamente dà certezze (belle o brutte), ma non libertà. ‘Appartenere’ è certamente più riposante che mettersi continuamente in gioco e acquisire autodeterminazione tracciando, passo dopo passo il proprio percorso. Questo è fare continua ricerca personale discernendo e selezionando messaggi. Anche dal proprio ‘pavimento dal quale ovviamente non si può prescindere. Ma è questa la vera libertà. Questo è ‘volare’. Anche se non avremo mai la sicurezza di toccare le nuvole.

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