E’ un allievo sincero e la domanda è molto più seria della risposta che posso dare. La domanda è: come possiamo essere sicuri del linguaggio ? Vediamo un film, capiamo la storia. Ma l’analisi del linguaggio non ha un riscontro definitivo. Veramente il regista con quell’inquadratura intendeva costruire quel senso ? Non siamo noi che ce lo vogliamo vedere ? Anche se la nostra lettura sembra molto coerente, chi ci garantisce che risponda alle intenzioni autentiche di chi ha scritto e diretto il film ?
Nessuno. L’unica risposta seria che conosca è nessuno. Nemmeno l’autore. Ma dobbiamo rassegnarci. Il linguaggio è un ponte e il ponte viene percorso, quando è percorribile, nei due sensi di marcia, che sono due punti di vista e due prospettive completamente diverse. Eppure continua a valere la pena del linguaggio e di tentare di usarlo. Anche se quasi certamente darà adito a fraintendimenti ed equivoci.
Di solito raccontiamo le storie che conosciamo a persone che non le conoscono. Non so, quel che abbiamo visto per strada, o la telefonata che abbiamo ricevuto. Se l’altro lo sapesse già ci sembrerebbe inutile ripeterglielo. Quest’abitudine della vita quotidiana ci fa pensare che sia sempre così. Lo è quasi sempre, in compenso è sempre vero il contrario: raccontiamo storie che non conosciamo a persone che le conoscono. Queste storie sono inconsapevoli, sono annidate all’interno della nostra comunicazione consapevole e forniscono agli altri informazioni di cui non siamo coscienti.
Ognuno di noi si fa un’idea dell’altro ascoltandolo. Non per quello che dice – per lo meno non solo – ma per quello che non sa di dire. Per quello che si vede di lui nel modo che ha di parlare. Per ciò che racconta di se stesso senza saperlo, mentre racconta ciò che sa di raccontare. Già si è riflettuto su questo punto anche qui: noi siamo portatori delle storie su noi stessi ben al di là della nostra volontà. Questo significa che nelle nostre storie c’è molto di più di quello che pensiamo. Molto più di quello che ci abbiamo messo. Molto altro rispetto ai nostri piani. Non solo per i narratori, anche per la nostra vita quotidiana è così. Ogni volta che salutiamo qualcuno non diciamo solo ciao, ma comunichiamo tutto il nostro mondo.
Ecco perché non potremo mai sapere fino in fondo cosa c’è per volontà dell’autore e cosa c’è nonostante l’autore. Possiamo solo dire che noi lo vediamo. E che se il nostro sguardo è orientato, forse abbiamo buone possibilità che quel che vediamo ci sia realmente. Leggere un film è fare questo. Una prova di connessione, un contatto con un mondo che ci invita ad entrare, e il tentativo di configurarne la natura. Aggiungerei solo che si va verso un mondo altro – com’ è sempre quello di un film – per conoscere innanzitutto il proprio. Perché il mondo alieno ci dice per contrasto qualcosa del nostro. E questo primo elemento di confronto avviene proprio sul terreno del linguaggio. Le singole immagini, le battute, i movimenti di macchina. Man mano che il film prosegue capiamo sempre meglio cosa vuol dire il regista quando fa quella tale scelta o quell’altra.
Parallelamente alla favola che ascoltiamo, impariamo il linguaggio che ce la sta comunicando. Parallelamente al linguaggio che ce la sta comunicando impariamo la logica a priori di chi ci sta raccontando la storia. Capiamo di lui, di noi, dei personaggi. C’è un solo punto morto in tutto questo: quando si è certi di aver capito. Quando si vuole essere sicuri.