Ci sono molti modi di percorrere la stessa strada. Ci sono anche modi per fingere o credere di averla percorsa senza essersi mossi di un passo. Non ho mai visto un film brutto di Sidney Lumet e sapevo che l’ultimo non avrebbe fatto eccezione. Anzi, questo film percorre strade già conosciute in un modo ancor più sorprendente. E’ vero, è antistrutturale alla stregua dell’ormai prevedibile Inarritu: il tempo salta avanti e indietro e chi guarda deve fare uno sforzo per rimontare gli eventi scompaginati dall’impalcatura. Anche se ha molto colpito la gente, credo che non sia questo il vero plus del film.

       E’ un problema di approccio, credo. E’ che Lumet si accosta a un materiale umano altamente infiammabile come quello di questa storia, con il rigore quasi freddo di una mentalità scientifica. Più il materiale è incandescente più la sua mano è impassibile.  Bruner dice che chi guarda il mondo con occhio scientifico indaga la vita cercando nessi di necessità causale: la mela cade per la forza di gravità. Chi guarda il mondo con occhio narrativo lo indaga cercando nessi intenzionali: le cose avvengono perché le persone hanno desideri e compiono azioni.

       Cosa avviene quando una mentalità scientifica incrocia una storia ? Avviene che gli uomini compiono le azioni che  compiono perché ubbidiscono a leggi naturali e inevitabili, e più che nessi intenzionali assistiamo a nessi causali. Così uno cerca nella memoria dove aveva già sentito un clima così, e arriva dritto alla tragedia greca. Alla necessità che regola gli eventi. All’ineluttabilità.

       Grande recitazione, grande umanità,  con picchi acutissimi di scrittura, come quando – parlando della madre appena morta – un personaggio rinfaccia a suo padre di non averlo mai amato quanto il fratello. Addirittura gli rinfaccia la propria bruttezza. Insinua il dubbio di non essere figlio suo, tanto è brutto rispetto agli altri familiari. E’ proprio lui che ha ordito il devastante piano della rapina che porta alla morte della madre. E si coglie in quel momento tutto il suo desiderio di trascinare anche suo fratello e la sua famiglia intera nella bruttezza di cui si sente parte. Una volontà distruttiva che sentiamo inevitabile e implacabile.

       Per il resto il film è algido e calcolato, cerebrale e tesissimo. Coinvolgente come il Bolero, con una partenza sommessa ma un andamento implacabile. Un titolo perfetto che ne incarnava il senso narrativo: “Prima che il diavolo sappia che sei morto“. Per noi diventa “Onora il padre e la madre”. Continuiamo imperterriti nel nostro suicidio culturale. Invece quel “prima” del titolo era una chiave, perché il film scandaglia i momenti che precedono i fatti determinanti, e quando sono avvenuti torniamo indietro e rivediamo, ristudiamo, tentiamo ancora di capire se davvero non era evitabile il disastro passo per passo. Dal momento che sarebbe prevedibile e noioso rivederli tout court,  li rivediamo da altra angolazione, a partire da un’altra linea narrativa che incrocia la precedente e così via.

        Before the devil knows you’re dead è l’opera di un ingegnere con un cuore che pulsa per la vita e per i drammi che porta con sé. Un film spietato, cattivo. Non una storia ma solo il suo epilogo. E’ un terzo atto dilatato che precipita all’inferno, ma che precipitando ci mette sull’avviso – come fa la tragedia greca – di ogni spigolo di noi rispetto al quale non siamo sensibili a modifiche o cambiamenti. Rispetto al quale agiamo non come persone libere dotate di intenzioni, ma come fenomeni di pura natura e di nessuna cultura. Prevedibili e condizionati, senza orizzonti.

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