Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Durante le trasmissioni sportive, nelle pubblicità, nei discorsi correnti: quote, scommessse, puntate. Vincite. Intanto di scommesse parlano anche le cronache giudiziarie. Giocatori che truccano partite, accordi clandestini. E così è nata come una doppia percezione riguardo alle scommesse: legali o illegali. Quelle legali sono sponsor fiorenti di una marea di iniziative, di squadre di calcio, di trasmissioni. Se vogliamo è una situazione un po’ paradossale: più ricche sono le sponsorizzazioni più significa che le aziende che le promuovono sono floride. La cosa non dovrebbe rassicurare molto gli scommettitori, ma evidentemente la riflessione non viene immediata.

C’è una cosa che mi colpisce in tutto questo. La cura con cui vengono scelte, ritoccate e composte le immagini sportive nelle pubblicità di queste agenzie di scommesse. Sono immagini evocative, bellissime, ti fanno sentire nel mezzo del gioco, nel centro della competizione e in pieno agonismo. Ecco cos’è. Che ti fanno sentire nel gioco. Anche se tu non sei parte di quel gioco. Anche se per quell’azione o per quello sprint in realtà non puoi nulla.

Ma il gioco a vincere puoi farlo. Azzeccare la tua previsione. E portare a casa dei soldi. Soldi veri, che poi dovrebbero influire nel tuo bilancio personale o familiare al di fuori della dimensione ludica. Ecco forse è questo piano misto di gioco e realtà che mi inquieta. Perché a pensarci, a credere che un gioco possa cambiare davvero il piano della realtà sono i bambini. Facciamo che eravamo, chi di noi non è entrato nei mille ultramondi dell’infanzia attraverso questo incantesimo? E davvero tutto diventava altro da quel che era: letto, comodino e scrivania diventavano paesaggi lunari, abissali, bellici o misteriosi.

Molto sano, credo. Ma molto sana era la voce della mamma che imponeva la fine del gioco e il riordino della camera. Una brusca uscita dall’ultramondo e un solido rientro nel mondo. Rimettere a posto alla fine del gioco significa in un certo senso riassegnare alle cose il valore che hanno e sollevarle da quello simbolico. Far sì che un tavolo torni tavolo e un letto torni letto. Il gioco simbolizza, crea, è un laboratorio di vita nel quale – parafrasando Wittgenstein – possiamo lasciar morire le nostre ipotesi al posto nostro. Ma un laboratorio non sostituisce la vita. Secondo me la scommessa patologica è proprio l’incapacità di rimettere in ordine la stanza e i significati.

A rinforzare questa sensazione di poco chiaro c’è la componente subdola della complicità. In quasi tutti gli spot compare qualcosa tipo: “gioca il giusto”. Paternalismo e complicità. Come dire: mi raccomando e come dire: noi sappiamo che cos’è il giusto, vero? Sommate le due cose c’è un bello scarico di responsabilità da parte dell’agenzia. Un po’ come Il fumo uccide sui pacchetti di sigarette. Un misto di dai prendimi e di te l’avevo detto che poteva farti male. Un finto gioco da genitore a figlio, Lucignolo e Geppetto insieme che provano a solleticare la tua voglia di rischio, di impresa, il tuo ardire e al tempo stesso ti raccomandano di essere responsabile. In tutti i modi si assicurano di non aver responsabilità in eventuali tracolli. Giornalisti e opinionisti sportivi, giacca cravatta e riflettori, modi ripuliti e leggeri. Sorrisi e velocità. Dici che pareggiano? Dici che segnano per primi? Un teatro infido e sottile cui i media si stanno asservendo e di fronte al quale unico vaccino sarebbe il risveglio del telespettatore. Ma qui, a conto di magie, solo Harry Potter potrebbe qualcosa.

Forse è questo il nodo: la scommessa connette in maniera aberrante il mondo del gioco alla vita. Ha qualcosa di subdolo e di regressivo, l’ idea infantile che possiamo uscire dalle nostre difficoltà reali, soprattutto se economiche e drammatiche, con un gioco. Cioè scappando dalla realtà così come è. Più cose di tutto questo mi fanno pensare al nostro neorealismo. La povertà, il bisogno estremo, la disperazione che – inutile negarlo – sono ingredienti fondamentali dell’attuale successo delle scommesse. Se penso a quei film sento che c’è una grande bellezza nel saper stare con entrambi i piedi nel momento che ci è dato. Senza scappare, senza prospettive magiche. E siccome, nella fila di personaggi, spuntano tra i miei neuroni I soliti ignoti, mi domando – senza sapermi rispondere – se nel rubare per disperazione non vi sia più dignità che nel giocare per disperazione. Per quanto negativo, non è un comportamento che mostra un più maturo senso della realtà?

0 risposte

  1. E’ complicato, ma ormai il rapporto lavoro serio-guadagno giusto si è trasformato in gioco “giusto”-guadagno sicuro. Non si cerca il lavoro serio…ma il gioco definito “giusto” anche dalle pubblicità televisive che contribuiamo a pagare con il nostro canone.

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