Pesco dalle carte appoggiate sulla scrivania, tra le cose “da leggere” che si accumulano impietosamente. Questo è uno stralcio di un articolo apparso su Repubblica il 9 marzo 2009, intitolato “L’economia e il ritorno alla morale”. Mia madre me l’aveva passato e adesso che riesco a guardarlo mi rendo conto che si tratta di un pezzo importante, e mi piace ri-condividerlo qui, con chi magari l’avesse perso allora.

    “Trent’anni fa un giovane economista inglese, Fred Hirsch, poi immaturamente scomparso, pubblicò un libro intitolato I limiti sociali dello sviluppo. Era un libro elegante e intrigante, che affrontava allora il cuore di quello che è poi diventato il problema della crescita. (…) Hirsch era un disincantato economista liberale e non incline alle prediche. Ma sapeva bene che le due forme tipiche del capitalismo, l’impresa e il mercato, non possono tenersi insieme se non sulla base di una legittimazione morale: che può essere la pietas cattolica, la grazia calvinista o la simpatia di Adam Smith. Ciascuna di queste “passioni”, religiose o laiche, pone limiti al comportamento egoista. Limiti logici, prima che morali: come quello dell’impossibilità che tutti possano “stare meglio degli altri”. Quei limiti impediscono che il comportamento egoista, varcando i limiti della logica, diventi distruttivo.

    Ora, proprio questo è avvenuto nelle due grandi crisi che hanno investito il capitalismo moderno, quella degli anni Trenta del secolo scorso e quella attuale. E’ avvenuto che l’avidità e il successo individuale sono stati eretti a principio collettivo: l’ideale impossibile che tutti possano stare meglio degli altri. Il che ha indotto istituzioni severissime, come le Banche Centrali, a praticare politiche di indebitamento sconsiderate, che a loro volta incoraggiavano comportamenti irresponsabili scorretti o criminosi da parte di amministratori, dirigenti, consulenti, di ogni ordine e grado.

    E’ significativa l’analogia tra guasti ambientali e guasti morali dell’economia. Entrambi discendono dall’insostenibilità di comportamenti distruttivi: degli equilibri naturali nel primo, degli equilibri etici nel secondo caso. Ma questa insostenibilità non è il risultato di una patologia del sistema. E’ invece il frutto di una esasperazione della sua logica. La logica del capitalismo è l’accumulazione. La quale è per natura illimitata. Si dovrebbe dire, più propriamente, sterminata. Ed è una logica impossibile, quindi illogica.

    E’ la logica della sterminatezza che sta alla base sia dei disastri ambientali che di quelli finanziari. E dovrebbe essere venuto il momento di opporre a questa logica dissennata l’etica dei limiti. Di combattere la vergogna criminale dei paradisi fiscali. Di limitare la “creatività” delle scommesse finanziarie. Di rallentare i movimenti di capitale speculativi. Di reintrodurre politiche dei redditi che proporzionino lavoro e produttività. Di introdurre misure di decenza nella sfrenata corsa delle rendite manageriali. Di osservare proporzioni programmatiche nella dinamica rispettiva dei consumi pubblici e di quelli privati.

    Insomma, di realizzare una “moral reentry” dalla follia che ci ha condotto a questo passo. E che non riguarda solo l’economia, ma anche e soprattutto la politica. (…)”

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