Grazie alla voglia di rivederlo dei miei figli, ho avuto la possibilità di recuperare uno dei film più attraenti tra quelli che come sempre mi ero perso. Ormai sapevo molte cose di Wall – E. Soprattutto mi avevano detto di questo primo atto quasi senza battute. Un po’ incredibile per essere un film per bambini. Ma il primo atto è in effetti così, con pochissime battute, e man mano che scorre mi stupisce proprio questo: come riesca ad essere un film per bambini. Anche non volendolo caricare di eccessivi significati, anche non volendo pensare che certe atmosfere risuonino nelle loro valenze metaforiche a livello cosciente per un bambino, rimane che la desolazione della Terra abbandonata e ridotta a deposito di rifiuti per tutto quel tempo è di fatto un peso narrativo enorme.

    Però, funziona. E più va avanti più senti che funziona dentro e che lavora su qualcosa di autentico. Questa Terra nella quale nessuno vive più e le relazioni sono quindi impossibili, nella quale altro non resta che stoccare i rifiuti di relazioni gestite male con gli altri e con l’ambiente, ha poco a che vedere con un luogo esteriore credibile e molto, invece, con uno interiore che conosciamo bene. E’ un panorama di solitudine, un cuore aperto davanti a noi, nel quale qualcuno si muove. Un pezzo di metallo sporco e malridotto. Ma comunque un corpo, una presenza con un compito che esegue senza porsi problemi: lo stoccaggio dei detriti.

     Wall E ha pezzi di scorta che usa per riparare se stesso, si ricarica, fa manutenzione di sé. E’ un po’ ammaccato, è sporco, è materico. Anche il sound design sottolinea ogni passaggio della sua fisicità. Finché un giorno arriva Eve, la sonda mandata dagli umani ormai fuggiti da molti anni per vedere se sulla Terra le condizioni siano tornate vivibili. Eve cerca qualcosa di vivo, una piantina, che possa dare questa conferma. Ci appare bianca, sibilante, con testa e braccia scollegate dal corpo, unite da una sorta di campo magnetico. E’ fluttuante, elegante, leggera, veloce. E’… un’anima. Quanto di più lontano da Wall – E, quanto di più complementare a lui.

    Il corpo recupera il rapporto con il proprio spirito e da questa danza relazionale nasce finalmente un essere completo. La fisicità di Wall E permette a Eve di entrare in contatto con il pianeta, e alla fine anche di trovare ciò che cerca. La piantina – appena trovata – viene introdotta da Eve dentro di sé, e un led luminoso ne segnala la presenza interna al suo corpo: fulminante immagine di un concepimento, di una relazione felice che dà vita a una vita, è una delle scene cardine del film. La vita ricomincia perché sulla Terra sono ricominciate le relazioni. La piantina esiste perché viene vista da Wall – E e riconosciuta come importante da Eve. Le cose esistono nella misura in cui le realizziamo.

    Si gioca qui il cuore della storia: il mondo ha bisogno che l’uomo stia lontano per molto tempo, deve disintossicarsi dall’uomo per poter ritornare vivibile. Ha bisogno che altri generi, non quello umano, riscoprano le relazioni autentiche. Un piano narrativo così congegnato mette i bambini nella condizione di non riconoscersi negli uomini e di riconoscersi, invece, nei due piccoli robot. E.T. faceva più o meno lo stesso gioco quasi trent’anni fa. Con il passaggio intermedio del bambino. Qui invece non ci sono più ponti, non ci sono intermediari. Ma i trent’anni che sono passati da E.T. sono stati decisivi in questo, oggi computer e robot sono parte della nostra quotidianità.

    La scintilla che scocca per l’incontro tra due esseri viventi – perché di questo si tratta nel gioco del film – illumina anche gli esseri umani ormai disumanizzati. Ridotti a meri consumatori, atrofizzati nella loro capacità di essere curiosi,  alienati dalla propria fisicità e ormai stranieri ad ogni tipo di contatto diretto, vedono il mondo attraverso schermi e ubbidiscono a freddi comunicati emessi dagli altoparlanti. In tutto questo sembrano anche divertirsi, sono presi da telefonate e divertimenti, ma non sono più in grado di incontrarsi davvero. A causa del disordine che Wall-E provoca, gli schermi saltano e le mani degli uomini riscoprono il contatto. Alla fine è un film sul recupero della memoria, e quindi di noi stessi.

    E’ proprio il nostro piccolo eroe, prima del finale, a dover attraversare lo stesso percorso sul quale ha condotto gli altri. Disattivato, scarico, quando grazie a Eve viene riattivato, non ricorda più chi è né come si chiama. Alla stregua degli uomini, anche la sua memoria di sé rischia di diventare detrito da stoccaggio. E’ il contatto fisico con Eve che lo riaccende, che lo riattiva dove nessun chip potrebbe far nulla. Perché – come è giusto che sia – lo spessore del film sta anche nel fatto che questo piccolo robot non sia un eroe senza macchia e senza paura, ma uno come noi, anche più debole di noi, che perde se stesso alla stregua degli altri. E che viene salvato dalla relazione, si identifica grazie alla relazione. E’ con questo contatto e con questo risveglio che il film si avvia alla conclusione. Memoria, identità. Guardo scorrere i titoli di coda, altra piccola chicca, e mi viene in mente una cosa semplice: noi siamo l’esperienza dell’altro che ci tocca.

0 risposte

  1. Ciao Gio’
    Ho visto Wall-E grazie a mio fratello, e dico grazie perché l’ho trovato davvero intenso. Non sono un amante dei film d’animazione digitali, anzi sono un fan del disegno a mano. Ma questa storia è davvero realizzata bene, un esempio perfetto di film con un buon arco di trasformazione e dei subplot che incidono sulla risoluzione del plot. Ogni dettaglio sembra davvero essere scritto sulla struttura della Marks. Ho fatto una testa tanta con questo film ad amici -appassionati come me di cinema- e familiari analizzandoglielo esattamente come hai fatto tu, qui sopra..
    Potrebbe essere un buon esempio per studiare, un pò come usi Il Diavolo veste Prada..

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