L’altra strada che ci si apre davanti non considera i gruppi come omogenei e separati ma li vede permeabili, diversificati, in costante movimento. In questa prospettiva i gruppi comunicano attraverso i confini su cui le persone si incontrano. Già Bachtin aveva proposto questa concezione della cultura: “Non dobbiamo immaginare il regno della cultura come uno spazio con delle frontiere e un territorio racchiuso al suo interno. Il regno della cultura è interamente distribuito lungo le frontiere. Le frontiere sono dappertutto, attraversano ogni suo aspetto. Ogni atto culturale vive essenzialmente sulle frontiere. Se viene separato da esse perde il suo fondamento, diventa vuoto e arrogante, degenera e muore.”

Sono le persone, gli attori sociali, non i gruppi o le comunità come realtà a sé stanti, che interagiscono tra loro nella vita di ogni giorno. Di una mamma che porta il bambino a scuola la prima cosa da vedere è che è una mamma, non che è islamica o nigeriana o brianzola. Di un operaio, di un padre, di un ammalato la prima cosa che dobbiamo vedere è che è un operaio, un padre, un ammalato, non che è senegalese o rumeno o barese. La prima concezione “reifica” la cultura, ne fa una “cosa” che le persone possiedono; anzi, una “cosa” che possiede le persone. La seconda concezione mette al centro della scena l’attore sociale, la sua iniziativa, la sua”responsabilità”; la “cultura” è semplicemente l’insieme di risorse pratiche e ideali – il linguaggio anzitutto – di cui le persone si servono per interagire con il loro ambiente fisico e sociale.

La concezione “reificata” della cultura alimenta una visione fondamentalista dell'”identità” che Amartya Sen critica nel suo recente Identità e violenza. Nessuno di noi, egli dice, “appartiene” ad un solo gruppo, ha una sola “identità”.  “Le radici e la storia non sono il solo modo di vedere noi stessi e i gruppi a cui apparteniamo. Ci sono una quantità di categorie a cui ciascuno di noi appartiene simultaneamente.

(…)Le identità sono plurali; ogni persona – in una data situazione – sceglie in quale ordine di priorità collocare ciascuna di esse. La persona che viene dal Marocco può voler dare la priorità al suo essere geometra, mentre cerca lavoro, o al suo essere padre di una bambina, mentre parla con l’insegnante, o al suo essere ammalato, quando è nello studio del medico. L’essere o non essere musulmano, l’essere o non essere praticante, l’essere o non essere “radicale” – l'”identità” stereotipica che viene più frequentemente attribuita oggi nel nostro paese a un “marocchino” – può non essere l’aspetto della sua “identità” che la persona desidera rendere saliente in una data situazione.

Se una persona avesse una sola “identità”, ad esempio di “musulmano”, e se questa “identità” fosse definita nei termini di una intransigente ortodossia che vincoli le persone ad agire in un certo modo, allora la responsabilità delle decisioni delle persone sarebbe assorbita e annullata nella loro unica e rigida “identità”. E’ questa visione monista dell’identità, comune ai gruppi fondamentalisti presenti in varie “culture”, che genera violenza e intolleranza tra le persone e tra i gruppi sociali, secondo Amartya Sen. Ma come può essere costruita una visione pluralista e tollerante dell'”identità”?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *