Probabilmente è capitato a tutti. Avere un’idea, piccola piccola. Un pensiero ricorrente che ci emoziona, ci fa sognare per un po’. Se la cosa va avanti siamo spesso portati a pensare che possa trattarsi di un’idea vera e propria. E’ la prossima storia che si affaccia dentro di noi?
La prossima storia è sempre un momento di rottura nella continuità della vita. Spunta d’improvviso e ci rapisce, ci distoglie, è un colore nuovo, una musica nuova, un’atmosfera nella quale qualcosa del nostro cuore o del nostro cervello ci fa precipitare. E diciamolo francamente: là dentro ci si sta troppo bene.

    Ma se siamo destinati a scrivere, se non teniamo tutto questo per noi, la prima cosa che ci viene voglia di fare è di parlarne, di condividerla. Perché è come un figlio, è una gioia immensa e un’avventura tutta da vivere. E proprio dalle donne incinte bisogna imparare, in questi casi. Spesso mi è capitato di sentire di amiche che non l’hanno detto a nessuno fino al terzo mese. Per sicurezza, dicono.
Quando scrivi è un po’ la stessa cosa. Ma la sicurezza non è la tua. E’ quella della storia.

    Tacere fino a che la storia non ha raggiunto una stabilità sufficiente per essere oggetto di comunicazione. La storia è un ponte. Che pesca da dentro di noi e porta dritto nel cuore degli altri. Un ponte di per sé non è gran cosa. Sono assi di legno? Un po’ di cemento armato? Ferro? Niente di che. Ci emoziona così tanto perché immaginiamo tutto quello che ci può passare sopra, e che non abbiamo ancora esplorato.

    Ecco. Se si parla troppo presto, si rischia di sentirsi fare delle domande, anche semplici e più che giustificate: ma poi come va a finire? Ma lei alla fine si mette con lui oppure no? E il colpevole? E’ davvero il portinaio? Come dire: qual è il dunque della storia? Una domanda che, quando noi abbiamo solo la capacità di parlare di quelle quattro misere assi che ne costituiranno l’ossatura, possono spezzare le reni alla pianta nascente.

    La storia non nasce solo grazie a noi. Non ci deve niente e non è una nostra proprietà. E’ qualcosa che decide di prendere vita fra le nostre sinapsi, che si manifesta e che chiede di vivere. Non è trama, non è punti di svolta, non è finali a sorpresa. Per lo meno non solo.
Parlare quando non si è pronti a farlo è come parlare di proprio figlio disquisendo delle sue ossa, piuttosto che dei suoi tessuti. Ci sembra di possederlo ma non ne sappiamo niente. Per questo mi sento di dire che ci vuole prudenza. Attesa. Ascolto. Poi verrà il giorno in cui nessuna domanda farà più paura, perché il viaggio sarà compiuto.

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