Scrivere in piedi. Lo faccio sempre perché significa scrivere in continuazione, quando sei in giro, quando fai la spesa o quando ti stritolano in un tram. Lo faccio perché la scrittura per me ha a che vedere con il movimento, con il mutamento e con il flusso delle cose. Lo faccio perché mentre ti muovi non controlli così bene quello che succederà, cambia il punto di vista e non sai cosa ti riserverà la svolta dell’angolo. E il momento in cui mi siedo al computer è necessario solo per mettere giù le cose scritte mentre ero in piedi.
Anche questa volta è così. Giro per la sala e cerco alcune scene che sono nell’aria da un po’. Fuori tira un vento da paura, cielo nerissimo nonostante maggio. Chissà che non sia dovuto anche alle polveri del vulcano. Guardo dalla finestra e mentre tutti camminano con passo affrettato, nell’angolo di giardino interno che vedo, lui sta là. Avrà circa la mia età. Chino sul selciato. Sta riparando un tombino. Veramente lo sta proprio ricostruendo, dato che qualcosa deve averlo divelto. Sta rimettendo tutto da zero.
La sua dotazione consta di: carriola, livella a bolla, calce, badile e secchio. Mentre le nubi si addensano e tutto comincia a volare, lui rimescola la calce nella carriola. Poco lontano c’è una pozzanghera di dimensioni lacustri. Lui ci va con il secchio, lo riempie quel poco che basta ad allungare il suo impasto. Lo rigira con il badile, lo tira via dai bordi e io penso a mio padre: raccogli bene dal piatto. Chissà se ha un figlio. Se ce l’ha, forse anche lui gli spiega come si raccoglie dal piatto.
Ha arnesi, ha pentole e forno, ha mano esperta. Ora prende l’impasto ben amalgamato, dopo aver messo calce e acqua q.b., spalma delicatamente intorno alla cornice di ferro che ha posato nell’alloggiamento al suolo. Livella la calce con arte, poi d’improvviso accelera. Non capisco perché. Prende il sacco di cartone in cui aveva la calce, lo riduce in strisce. Fa tutto con grandissima rapidità. Pone due strisce di cartone lungo due bordi del tombino. Con delicatezza fa aderire il cartone alla calce bagnata e al bordo della cornice di ferro. Dita così posano un cerotto sulla pelle di un bambino, modellano un soufflè.
Poi, sopra il cartone, ancora uno strato di calce. Nel frattempo si dev’ essere rappresa per cui il cuoco torna alla pozzanghera e ridiluisce il composto. Presente quelle torte a strati? Ecco, più o meno così. Ancora giù, chino, a far prendere forma al suo progetto di stabilità del territorio. Sopra di noi sta per infuriare la tempesta. Non so perché ma mi domando: chi voterà, quest’uomo? Chi pensa che si occupi meglio degli interessi suoi e di tutta l’Italia? Cosa penserà? Gli dei del parlamento, quelli che stanno così più in alto di noi, mettono la stessa cura nel riassestare i nostri conti?
Finalmente arriva la posa definitiva. Il tombino viene adagiato e non può non sembrarmi meraviglioso. C’è della terra mista a calce ancora nella carriola. L’uomo la prende e la versa nella pozzanghera, la livella. Finché la pozzanghera in parte si assorbe. Inizia a piovere. Questione di secondi e la cosa si fa torrenziale. Lui rimette gli attrezzi nella carriola ripulita con il badile, poi apre – ormai sotto il diluvio – il trespolo di ferro sul quale adagia il cartello del minicantiere e lo posa in fianco al tombino. Come in una mostra: De Chirico, olio su tela. C’è qualcosa di metafisico, come se lui non venisse bagnato dalla pioggia.
Se ne va, ora c’è solo il tombino sotto il diluvio. Penso che lui non si sarebbe mai distratto per così tanto tempo guardando uno che sta scrivendo una storia. Scrivere in piedi. Lo faccio sempre.
Divertito, onorato. Per chiarezza: scrivo, seduto.
Se il simpatico tombinaro ha un figlio, certamente gli spiega il senso più che il modo. O forse non gli spiega più niente, un’usanza troppo antica per accoppiarsi all’ “usa e getta”.
Comunque mi fa piacere ricordare e sorrido, perché in questo nulla è cambiato, ancora oggi “raccolgo bene”…è qualcosa di compiuto, anche esteticamente …..!