Da un’intervista di Anna Camaiti Hostert a Fiorella Infascelli:

“La macchina da presa è una macchina e come le altre macchine mi piace. E’ la ragione per cui sto in macchina e non ho l’operatore. Quando sto con l’occhio alla MDP vedo cose che non riuscirei a vedere a occhio nudo. Per questo mi affascina. Per me i registi che non stanno in macchina sono un po’ un mistero. Se c’è una scena che non va lo capisco solo stando in macchina.

A proposito di stare in macchina, una volta mi è successa una cosa molto strana. Avevo chiesto a una mia amica attrice di fare la suora in un lavoro che facevo sul Lazio. Giravamo a Tuscania. Eravamo di fronte a una chiesa dove lei avrebbe dovuto raccontare la storia di quel luogo, stavo facendo le prove per decidere le inquadrature da fare con il direttore della fotografia. La guardavo e dicevo va bene. Poi andavo in macchina e dicevo c’è qualcosa che non va, sta malissimo.

La cosa mi inquietava. Toglievo l’occhio dalla macchina, la riguardavo e mi sembrva normale. Tornavo alla macchina e sentivo che c’era qualcosa di strano. Allora ho chiesto al direttore della fotografia se anche lui vedeva qualcosa che non andava, qualcosa nel viso, qualcosa, un colore. Tutto il giorno è andato avanti così e non riuscivo a spiegarmelo. Abbiamo finito di girare e siamo tornati a casa. La sera, lei, la mia amica, mi ha chiamato e mi ha detto:  “Sai Fiorella, non te lo volevo dire mentre stavamo girando, ma sono stata dal dottore e sto male, davvero male”.

Anche se questo è un esempio molto drammatico, terribile, ci ho ripensato molte volte e non ho mai capito come fosse potuto accadere.”

Mi ha colpito molto questa storia di Fiorella Infascelli. Perché anche se a me non è capitato nulla di così clamoroso, conosco perfettamente quella sensazione che deriva dal vedere soltanto dentro il view finder. Parlo solo di videocamera ma è la stessa cosa. Se guardi nel view finder l’altro occhio è chiuso e tutto il tuo mondo visivo è solo il campo dell’inquadratura. Qualcosa di molto vicino all’esperienza finale del cinema. Ed è vero, verissimo, che isolando un elemento dal tutto, c’è qualcosa che si astrae e si chiarifica misteriosamente.

Mi spiego. Quando hai davanti il monitor e sei seduto a guardarlo, intorno hai tutto e tutti che si muovono. Tu stesso muovi gli occhi e non guardi solo lì. Alla fine per quanto sia l’immagine che stai costruendo o cercando, è un piccolissimo punto visivo all’interno del tuo campo visivo totale. Invece entrare nel senso, nel sapore, nella dimensione invisibile di un’inquadratura, di un volto, di un campo lunghissimo o di un dettaglio, deve essere anche un’esperienza fisica.

Per me è stupefacente la quantità di cose che ci portiamo addosso senza saperlo, cose visibili se le sapessimo vedere. E mi stupisce ogni volta quanto la strada per arrivare a vederle sia una strada di sottrazione. Vuoi vedere in profondità quello che c’è dentro un’immagine? Rinuncia a tutte le altre e stai lì, lì dentro, di fronte a lei. Vuoi sentire davvero cosa c’è attorno a una persona, a due occhi che guardano? Nel monitor controlli la fotografia e il movimento di macchina, ma se vuoi entrarci è là che devi andare. In camera. Metterci l’occhio e che sia collegato allo stomaco. Alla fine è un fatto fisico. Una disponibilità a incontrare veramente quello che stai raccontando. Perché è l’unica cosa che puoi davvero raccontare: non la storia, ma il tuo rapporto con lei.

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