E’ un periodo in cui tutto mi parla in questo modo. L’altro giorno Giada mi riferisce qualcosa che uno psicologo del suo ospedale ha detto circa la morte. Temo di non essere preciso perché era di un’esattezza luminosissima: non bisogna mai fidarsi – mi pare dicesse – di chi si avvicina alla propria morte con una serenità priva di emozione, di chi dice che ha accettato, che è tutto a posto e che va bene così. Quella sembra serenità, ma rischia di essere solo una difesa. La serenità va bene ma non scollegata dall’emozione per qualcosa che ci riguarda interiormente in un modo così definitivo e incisivo.
E’ vero che succede. Interpreti del senso della nostra vita, assenti dai fatti che ne costituiscono il decorso. Paura? Inconsapevolezza? Pigrizia? Non so. Ma so che a volte la pancia viene tenuta lontana, filtrata, rifiutando così ogni valore interpretativo all’emozione. Quando un personaggio è inconsapevole vive le proprie emozioni come l’impulso sufficiente a compiere qualsiasi azione: odia qualcuno quindi lo tratta male, ama qualcuno quindi tenta di piacergli. Nel percorso di crescita che è destinato a vivere, lentamente trasforma il suo modo di vivere le emozioni: da semplice impulso a dire e fare a ricezione profonda di quello che gli succede dentro.
Forse quando smettiamo di considerare ordini quelli che le emozioni ci trasmettono, quando cominciamo a leggere le emozioni come informazioni preziose, è un momento chiave, un tempo magico davvero della nostra crescita. Forse quello è il momento in cui diventiamo capaci di interpretare il nostro modo di interpretare la vita. In cui eroe e mentore si toccano dentro di noi in un equilibrio mai stabile, esposto allo schiaffo dell’imprevisto e del divenire, quando diventiamo – come direbbe Fossati – preparati a cadere e a tutto quello che si impara.
Sono quasi le sei di mattina. Dormono tutti. Vedo la luce di quest’alba d’aprile entrare dalla finestra e tagliare come un rasoio i contorni delle cose. C’è una bellezza trasparente in ogni dettaglio. Oggetti lasciati in disordine, oggetti inutili che in momenti così diventano necessari: la biro sul tavolo non è mai stata così vera, né mai così lontana dal suo essere semplicemente una biro. E’ parte di questa bellezza che passa, è memoria, è già una frazione di identità. Senso e decorso. E’ solo una biro sul tavolo. E’ senso, è decorso.
Attendo di smettere di essere protagonista, di trasformare le sensazioni che provo in risposte a domande che mi faccio. Domande non-domande in realtà, chiuse, che cercano unicamente il conforto della sola risposta ammissibile che io mi sono già dato.
Quando in un fallimento smetto la rabbia che maschera il dolore, allora inizio ad esserci.
Una pessima citazione di Adorno dice che la moralità nella sua più alta forma è guardare a sé stessi come da estraneo. Come se la lucidità richiedesse distacco, ma il distacco è faticoso o portatore di paura. Perché lo sguardo è sempre alla mano che allenta la presa, mai rivolto al libero orizzonte.
Il turista è un compito facile, ma viaggiatore è un’altra cosa. Attendo il momento di quando, sentendomi creatura, mi sentirò libero di viaggiare e saprò sostenere la rilettura del mio diario sul moleskine.