Non è successo con facilità e nemmeno con rapidità. Per anni molti autori non mi sono piaciuti, non li capivo e del resto nemmeno ora sono tra i miei preferiti. Tutti quelli che sono eminentemente autori “sociali”. Pasolini, Brecht. Mille altri. Lontani da me. Grandi, per carità. Ma non mi accendevano. Non mi riguardavano e comunque ho sempre trovato che gli autori troppo identificati con la propria battaglia sociale invecchiassero prima e peggio di tutti gli altri.

Perché alla fine rimangono solo le storie.  Quelle fatte di persone che desiderano, amano, agiscono e vincono o perdono con tutti se stessi. Amavo molto Il Grido di Antonioni. Ma lì la storia sociale era la storia di un uomo. E il neorealismo, ma perché non ci vedevo un affresco popolare e politico, bensì la storia struggente e bellissima di uomini e donne. Di persone vere con i loro drammi specifici. E poi troppo di frequente, nei film o nelle storie di lotta sociale, l’interiorità dei personaggi non è sviluppata con sufficiente amore. Trovo che molto spesso chi racconta storie di questo genere pensi che basti parlare di un tema forte per avere una buona storia. Disoccupazione, violenza sulle donne, discriminazione. Hai già un buon film solo perché sostieni o accusi, solo perché lotti contro o a favore.

Con il senno di poi era evidente che non potessero piacermi più di tanto. Ancora non capivo perché ma oggi so che quello che mi accende in una storia è l’assegnazione di significati ai fatti. E’ lo sguardo unico, specifico, luminoso di un personaggio. Senza né ragione né torto, solo con verità. Credo sia per questo che il mio primo grande amore – ma davvero una passione senza limiti – sia stata la Nouvelle Vague. Perché lì le emozioni dettano i fatti del mondo. E’ pura interiorità estroflessa. Anche lì c’erano livelli diversi naturalmente. Non tutta la Nouvelle Vague è Truffaut.

Il paradosso è che una delle qualità che Truffaut ha rispetto ad altri è proprio la sua dimensione sociale. I 400 colpi raccontano un bambino e raccontano un mondo intero di disagio e di fatica. E molti dei loro più bravi autori all’inizio erano cine-giornalisti, quasi cugini dei nostri neorealisti. In qualche modo l’intensità dello scavo interiore veniva arrotondata e assestata sulla base di un contesto sociale e storico.

Poi con gli anni qualcosa è successo. Fotografie, filmati. Telegiornali, credo. Anche internet. E pian piano ho sentito più vicini autori come Pasolini e Brecht, per i quali non credo che farò comunque mai una malattia. Ma quando vedi le facce delle donne picchiate o violentate, dei diseredati della terra che annaspano fra le macerie delle guerre, dei tornadi o degli tsunami; quando senti le voci e i racconti e provi ad estrarli dai palinsesti in cui sono frullati, se immagini che una di queste persone sia seduta a tavola con te e ti parli direttamente… allora capisci che tutto un mondo di autori aveva ed ha un suo senso.

Ci vuole che scatti qualcosa. Una sorta di senso universale di umanità. Bisogna che uno arrivi a sentirsi parte integrante di un organismo che deve andare avanti insieme. Se l’Africa soffre tutti noi ne risentiamo, se non a livello concreto a livello umano e spirituale. Che prima o poi diventa concreto. Se i bambini cinesi lavorano in condizioni spaventose, se le donne di paesi come il nostro vengono picchiate nel segreto delle case, se la mafia, se i giochi di potere sempre più pericolosi e perversi, se l’abbrutimento culturale, se i soldi per gli armamenti…. se tutto questo insieme continua a succedere, anche la mia sfera intima reagisce. Se faccio parte davvero, con la pancia, di questa comunità che è il pianeta, anche le mie storie respirano questo clima globale.

Ecco devo dire che questo – quando ero giovane – non lo sapevo. Non potrò raccontare ai miei figli – difatti non lo faccio – quant’era dura ai miei tempi. Nella mia storia personale non è mai stata dura. Lo è di più adesso. Eppure in questa durezza c’è qualcosa che mi fa sentire molto meglio di quando ero giovane. Mi fa sentire parte collaborante con questo sistema che non funziona ma che deve trovare il modo di resettarsi e di ripartire. Le storie sono piccole cose. Però se sopravvive Omero significa che non ci decidiamo mai a buttarle.

Sono partito dall’interiorità molto prima di sapere che fosse l’interiorità. Mi emozionava e questo mi bastava. Qualche tsunami dopo, questa interiorità si è connessa con il mondo, con le ingiustizie sociali, con le piaghe della terra. E la ferita del personaggio per me ora è il riflesso della ferita del mondo. Ognuno di noi porta in sé il dolore di tutto il pianeta, anche se è dalla parte dei privilegiati: da una parte della terra il dolore è mancanza di beni, dall’altra è mancanza di bene. Il ragazzino americano obeso da una parte e il suo coetaneo scheletrico in Africa sono due personaggi che assumono su di sé le caratteristiche della loro parte di mondo. Dopo tanti anni che l’ho visto, non smetto di ripensare a Perchè Bodhi Dharma è partito per l’oriente: “Io so che nell’Universo non sono niente. Ma so che nell’Universo non c’è niente che non sia io”.

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  1. Le storie sono piccole storie, ma dalle “piccole storie” di Omero sorge la filosofia dell’Occidente; dalle “piccole storie” della Bibbia, dalle “piccole parabole” del Vangelo, sorgono teologia e spiritualità della tradizione ebraico-cristiana. Dalle “piccole ferite”, come quella che l’Angelo inflisse a Giacobbe, nasce e si sviluppa la storia di Israele…la nostra storia. L’importante è che la filosofia resti collegata alla storia e non ruoti a vuoto intorno a se stessa; che la teologia resti collegata al senso delle Scritture; che la spiritualità non prescinda dalla concretissima logica delle parabole che Gesù raccontava; che le ferite non marciscano nell’autocommiserazione, ma provochino energie nuove, purificate e motivate dal dolore.

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