E’ passato del tempo, ma credo che valga la pena di leggere. E se si era già letto in primavera, di rileggere.

 

Lettera aperta

 

Questa lettera è stata scritta il 19 Marzo.
E’ rimasta nel cassetto, o meglio nel mio computer, fino ad oggi. Temevo che potesse essere vista come l’ennesimo tentativo di cavalcare il momento politico particolare legato alla scadenza elettorale. In realtà essa vuole suggerire alla politica alcune riflessioni e considerazioni diffuse tra molti di coloro che confidano in una nuova primavera politica e morale. Non vuole dar vita ad alcun movimento ma semplicemente contribuire a quel clima di ripensamento generale della politica auspicato da più parti. Alcuni amici mi hanno suggerito
di proporla all’attenzione dei leader dell’Unione. La lettera è rivolta inoltre a tutti gli artisti e gli intellettuali, agli operatori e alle varie professionalità nel campo della politica, della cultura, dello spettacolo, dell’arte in generale, e a tutti coloro che, a prescindere dal tipo di lavoro
che svolgono, dal campo di interessi in cui sono impegnati, condividono o hanno qualche ragione per condividerne lo spirito. Nella sua stesura originale la lettera conteneva alcuni riferimenti alle recentissime elezioni politiche. Riferimenti che non sono più presenti nel testo attuale.

Roma, 21 Aprile 2006. Giuseppe Piccioni

 

 

LETTERA APERTA AI LEADER DELL’UNIONE 

Durante il duello televisivo tra Prodi e Berlusconi del 14 Marzo c’è stato un passaggio, nel discorso del leader dell’Unione, in cui egli ha sottolineato la necessità di progettare un paese nuovo, un paese in cui, finalmente, vengano riconosciuti i meriti e non i privilegi, un paese in cui un giovane, per costruire il proprio futuro, non debba essere costretto all’umiliante ricerca di una raccomandazione. Questo riferimento all’Italia dei meriti, nella sua apparente ovvietà, mi è sembrato al contrario una vera novità. Quel sussulto di indignazione di cui questo paese fatica ad essere capace, non solo per fatti macroscopicamente evidenti, come quelli che riguardano il nostro (ex) Presidente del Consiglio, ma per quel complesso di comportamenti diffusi in cui, un certo grado di conflitto di interessi e di corruzione, costituisce ormai la caratteristica abituale presente nella pratica degli affari, nella politica, nella formazione delle carriere, nella produzione culturale, nello spettacolo. Al sospetto antico e qualunquista si sostuisce in tutti noi un sentimento di certezza: che la maggior parte di coloro che, in determinati posti di responsabilità, sono chiamati a compiere delle scelte, in realtà obbediscano, nella quasi totalità dei casi, a una logica di scambio di favori. Questo clima favorisce, è ovvio, coloro che sono più capaci di intessere relazioni, o che hanno acquisito, per vari motivi, quel patrimonio di conoscenze, amicizie, frequentazioni, che sembrano essere più importanti e decisive della competenza e della capacità professionale. Viviamo in un sistema di relazioni economiche, politiche, familiari, che opera una costante discriminazione nei confronti di chi, pur essendo dotato di buona volontà, talento, passione, non fa parte, o semplicemente non vuole far parte di questa logica. Tutto questo non può che arrecare un grave danno al paese: la dispersione di un enorme potenziale di risorse, di idee, di energie e una totale mortificazione delle intelligenze. Questa discriminazione sembra essere un dato caratteristico, genetico, ineliminabile del costume italiano e la denuncia di questo stato di cose un pio desiderio degli ingenui o, al peggio, una mera operazione di propaganda.

Vedo già l’alzata di spalle di molti intellettuali che, a sentir parlare di questione morale, oppongono con fastidio una visione razionalistica, pragmatica, tutta a favore della politica delle cose, senza incanti e retorica. Nel migliore dei casi ho l’impressione che molti degli addetti ai lavori della politica, a
sentire questi discorsi, possano dire: “ Si, grazie per i nobili argomenti ma adesso dobbiamo parlare di cose più serie, più concrete. Lasciaci lavorare.”

Mi chiedo come si possa coinvolgere il paese in una straordinaria opera di ricostruzione senza essere in grado di interpretare le sue aspirazioni più profonde, senza dare in cambio una speranza, un progetto radicalmente diverso a cui tutti possano guardare con fiducia. Un progetto che dia a tutti una ragione per dare il meglio di sé senza avere il timore che ci sia qualcuno che non rispetta la fila, qualcun altro che ha degli sconti, delle corsie preferenziali. E’ questa la nuova frontiera per la politica italiana, per il paese: giustizia, equità, valorizzazione di chi è capace, a prescindere dall’ ambiente di origine, dalle appartenenze politiche, dalle famiglie. Questo non deve essere semplicemente un
cavallo di battaglia dell’Unione nella campagna elettorale, ma un richiamo costante, nell’azione di governo, a tutti coloro che dovranno prendere delle decisioni. Che siano scelti per le loro competenze, per l’onestà, se questa non è considerata una dote fuori moda, per la capacità di incoraggiare, di sconfiggere la rassegnazione, di contribuire a creare quell’aria nuova nella
politica, nella cultura. Pensiamo davvero a come potrebbe essere una televisione diversa, senza censure, ma anche meno intossicata dalla stupidità, dalla faziosità, dalla volgarità.

“Questo è un paese dove i figli degli avvocati fanno gli avvocati e i figli dei disoccupati fanno i disoccupati.” E’ una battuta dell’ultimo, bellissimo spettacolo di Paola Cortellesi. Forse molto di più di una battuta. Sappiamo che il nostro è un paese bloccato. Che al di là di qualche eccezione, i destini individuali, le carriere, persino il successo vengono decisi troppo spesso dall’appartenenza a
una lobby, a una famiglia, a un ambiente. Che ci sono posizioni di privilegio ereditarie che formano una casta impenetrabile, inamovibile, posizioni occupate da persone che hanno un grande potere, spesso inadeguate ai posti di responsabilità che occupano, il cui consenso è decisivo per l’approvazione di un progetto e che a loro volta devono ridistribuire favori , suggerire nomi, raccomandare. Conflitti di interesse, la frequentazione di uno stesso ambiente o l’appartenenza ad un gruppo di amici comuni, non di rado condizionano il giudizio, solo apparentemente super partes, di critici, opinionisti, intellettuali nei confronti di un libro o di un film. In alcuni casi, sciaguratamente, essi sono nel libro paga di produttori e editori. A coloro che sono nell’ombra, che non appartengono a nessuna lobby, che non hanno ancora crediti da far valere, è riservata una totale mancanza di attenzione, al limite della crudeltà.

Questi comportamenti non sono patrimonio esclusivo della destra. Essi sono la pratica costante di quel partito trasversale in cui la politica è lo strumento con cui si concludono affari e si costruiscono le carriere, all’interno di un intreccio di rapporti in cui, se si vuole lavorare, è difficilissimo non entrare a far parte, esserne complici, condividerne i privilegi e i compromessi. E il prezzo di tale appartenenza è una diminuzione della libertà individuale, dell’indipendenza di giudizio. Chi cerca di tirarsi fuori da questo intreccio di favori e obblighi, a meno che non abbia consolidato una posizione di potere personale, o non lavora o, comunque, non entra a far parte dei processi
decisivi. E’ invisibile.

Questo partito degli affari, inciuci o maneggi, che ormai condiziona pesantemente la cultura, che entra nelle decisioni sui progetti da approvare, nelle nomine, nei criteri di assegnazione dei premi, nelle selezioni dei film nei festival, impedisce o meglio inibisce comportamenti indipendenti, condiziona il mercato rendendolo non libero. Non è mia intenzione mettermi su un pulpito, non si tratta di facile moralismo anche perché tutti coloro che hanno ottenuto un certo grado di successo, di notorietà (compreso il sottoscritto), non possono non avere il sospetto di essere o di essere stati parte di questo meccanismo. E’ una mancanza
di libertà che riguarda noi tutti e in cui si richiede che tutti, in misura maggiore o minore, siano collusi. Ci sono, a volte, ahimè, giudizi che non sempre si possono esprimere ad alta voce, uno scontento che si alimenta nelle retrovie, una disillusione che porta molti giovani a guardare al proprio futuro accettando fin dall’inizio l’idea che per riuscire non è sufficiente studiare, impegnarsi, credere nel proprio lavoro, ma che, prima di tutto, bisogna avere delle conoscenze, degli appoggi.

In questi ultimi decenni l’affermazione di un certo modello di televisione ha prodotto una pedagogia contagiosa, del tutto negativa. Si è affermata un ideologia del successo che non si accompagna alla stima per sé stessi o a quella che viene conferita dagli altri. E’ una idea di successo dove è sufficiente essere famosi, conosciuti e riconosciuti, che non elimina, anzi amplifica le angosce, un successo che rende fragili, esposti alla depressione, alla perdita di autostima, spesso a una deriva esistenziale. In questa logica di inclusione/esclusione dalla lista di coloro che ce l’hanno fatta non esiste altra alternativa che il fallimento, la frustrazione. E’ su questo tipo di valori, o di non valori, che si è fatta strada la pedagogia, o la non pedagogia berlusconiana: una sistematica opera di diseducazione della gente, la frantumazione di qualsiasi idea di comunità, la scomparsa di qualsiasi conflitto interiore tra bene e male, l’esaltazione del destino individuale al di là delle regole, il fastidio verso qualsiasi scrupolo o conflitto morale. Quello che conta è farcela, non importa come e a quale prezzo.

Personalmente, da qualche tempo, faccio fatica a firmare appelli, anche i più giusti, quelli a cui non ci si può sottrarre. Spesso attori, registi, personalità di rilievo del mondo dello spettacolo, sono chiamati a testimoniare con la loro presenza, a favore di una parte politica. E’ l’Italia dei vip. I giornalisti ne riportano nomi e cognomi solleticando la vanità di quelli che vengono citati e causando
frustrazione in quelli che vengono dimenticati. Qualcuno sospetta che alcuni si facciano vedere in campagna elettorale per ottenere una posizione di vantaggio una volta che si sia insediato il nuovo governo. Coloro che hanno pudore, rimangono isolati, esclusi, senza causa e senza bandiera. Rattrista l’idea di affidare la capacità di attrazione di un progetto politico alla presenza di vip nelle varie manifestazioni dove, troppo spesso, artisti, attori, attrici sono
ridotti a specchietto per le allodole, semplice ornamento della politica. E’ l’Italia della televisione, dell’Auditel. Dove il solo fatto di essere famosi o conosciuti è considerata una qualità. Che ne è della politica? Della moltitudine di “invisibili” che, ogni giorno, nei posti di lavoro, nelle scuole difende quello che resta della dignità di questo paese. Non meritano
l’attenzione che è riservata al vip che porta voti? E allora ecco che “lo spettacolo” della politica si svuota di significato e quello che avviene nella società civile, poiché non visibile, non quantificabile, non trova rappresentanza nei tavoli dove si prendono le decisioni, o nei salotti televisivi.

Quello che mi chiedo è come si può contrastare questa tendenza. Con quali valori e comportamenti alternativi? Rischierò di essere demodé dicendo che questo paese ha bisogno di principi e di speranza. Che forse si può pensare a un’ Italia che non sia quella dei furbi, dei cosiddetti vincenti, dove il disagio non ha diritto di cittadinanza, l’Italia degli affari sporchi, dell’intimidazione, dei
modelli televisivi sempre piu’ avvilenti di uomini e di donne (oh, sì purtroppo. Qui l’indignazione non sarebbe mai troppa. Dov’è finito il movimento di opinione martellante, tambureggiante delle donne?), l’Italia del gossip, delle isole dei famosi, un’Italia sempre più depressa e incanaglita. Non parlo di censure. Mi chiedo solo se è da ingenui pensare che questa tendenza si possa contrastare, invertire. E se fosse possibile pensare a un’Italia migliore di questa, a una televisione migliore di questa, a una politica migliore di questa? Non basta una semplice successione al governo. Il declino di questo paese è così profondo, i guasti così gravi, che occorrono scelte e comportamenti eccezionali. Bisogna essere capaci di parlare alla parte migliore della nazione, di affidarsi a uomini le cui qualità morali non siano secondarie. Bisognerà davvero fare in modo che la politica non sia più un’attività separata dalle legittime aspirazioni di tutti. Una politica che è soprattutto strategia mediatica, fondata esclusivamente sul carisma televisivo, e che punta ad un consenso di tipo plebiscitario. E’ l’Italia dei comunicatori
dove il cosiddetto successo mediatico fa terra bruciata di tutto ciò che gli sta intorno, rendendolo secondario, inutile, relegando nella clandestinità qualsiasi dissenso, qualsiasi altro argomento. Non si parla ad un’Italia di cittadini ma di fans, di tifosi, di sudditi. Il successo non deriva dal rispetto, dalla stima, dal “merito paziente”. Il culto mediatico della personalità esige
l’ammirazione infantile, il fanatismo e una delega acritica e senza condizioni. Questo paese depresso, diviso, sospettoso, incapace di desideri, di passioni può innamorarsi di nuovo. Il nuovo governo dovrà restituire qualcosa che non è contenuto nei programmi: speranza, orgoglio e il diritto a ritrovare una politica che ci rappresenti davvero e un senso più pieno nel nostro rapporto con la collettività.

 

 

Roma, 12 Aprile 2006 Giuseppe Piccioni

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