Ricevo un invito bellissimo. Assistere a una lezione di semiotica. Mi è porto da un collega dello IED, Raffaele Solaini. Mai stato ad una lezione di semiotica in tutta la mia vita. Sono curiosissimo. Mi presento con il mio portatile, dietro il quale posso nascondermi al fine di meglio sparire tra gli allievi. Ho già un armamentario pronto per l’uso: bella zio, questa lezione spacca un casello! Ma la pettinatura non aiuta la mia impresa che rischia di rivelarsi vana. Così, mi accomodo palesemente fuori corso fra i miei episodici compagni di banco. E Raffaele inizia a parlare.

    Senza pensarci inizio a scrivere appunti, per la prima volta a scuola con un portatile su cui segnare le idee, che con un colpo di mouse saranno pronte per essere sistemate, tagliate, riutilizzate. Non mi rendo conto del tempo che passa, e la prima ora vola letteralmente. Un’ora nella quale scopro le seguenti cose. Quando è definitivamente troppo tardi perché mi possa sistematicamente servire, scopro di aver imparato a prendere appunti velocemente in modo selezionato ed essenziale. Non solo. Finita la lezione ho scritto cinque pagine carattere 11 piene zeppe. Ho in mente tutto o quasi, credo. Perché ora che non posso più farlo, forse ho anche imparato a studiare. Certamente è diversa la fame. Dentro di me ho un vero rammarico per non poter assistere alla prossima lezione, dove si promettono sviluppi intrigantissimi delle cose che sono state dette.

        Non so nulla di semiotica, e quel che ne ho sentito oggi mi ha acceso diverse luci dentro. E’ come se ci fossero percorsi che lontani dal set hanno ragionato su quello che avviene sul set. Sul perché la macchina è messa lì anziché là. Sul fatto che un sistema di scelte è una strategia. Che non si vede in quanto tale ma che – in quanto strategia – dall’alto della sua invisibilità detta le regole del gioco e conferisce senso alle parole e alle cose. Mi torna in mente quando a scuola ci andavo io. E credo che mi siano passate davanti infinite meravigliose strade senza che io le vedessi. Per lo meno fino al liceo incluso. Forse poi, dalla Paolo Grassi in avanti, ho iniziato ad amare davvero quello che stavo imparando. Oggi è tutto più semplice nella mia mente: amo quello che mi insegna qualcosa di me e del senso che c’è intorno.

    Anche insegnare mi piace a condizione di imparare in diretta con i ragazzi. Si fa per fame, perché tendiamo a capire cosa siamo e che continuiamo a scoprirlo. Quando Raffaele dà la pausa mi sembra tempo perso, e quando ricomincia a spiegare mi rendo conto che il suo discorso tocca la spina dorsale della comunicazione. Ci sono tante cose anche molto simpatiche e decorative che si possono dire sul tema. Curiosità gossip dati e statistiche. Poi c’è un modo di osservare la struttura profonda di tutto il macello che ci circonda. In qualche modo di spogliarlo, di riconoscerlo. E’ come un thriller, nel quale a rischio della vita si cerca la verità.

    In questi anni ho studiato su testi molto diversi. Oggi ho avuto davanti a me una persona che mi spiegava delle cose. E ho capito che è sempre un regalo. Un’energia e una serie di possibilità aperte che nessun testo per quanto interattivo può dare. Allora mi sono chiesto – se è vero che si impara ad imparare – quali siano le cose meravigliose del mio presente che mi sto certamente perdendo…

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