E’ un po’ di tempo che sto percorrendo e ripercorrendo le tracce del cinema di Neil Jordan. Perché di lui mi piace moltissimo la sua indagine profonda, talentuosa e ogni volta imprevedibile sulla natura della nostra identità e sulle strade che percorriamo per prenderne o perderne coscienza. E’ arrivato il turno di Intervista col Vampiro, film che confesso non avevo mai visto.
Ancora una volta sorpreso dalla sua capacità di illuminare e di muovere la macchina, stavolta sono rimasto assolutamente sbalordito anche dalla sua capacità di guidare gli attori. Soprattutto nel caso di Tom Cruise ritengo che questo film rappresenti un punto di recitazione inimmaginabile. Ricordo il lancio pubblicitario, un battage notevole, con un certo folklore anche a livello di pubblico – si raccontava di gente svenuta durante la proiezione e altre amenità del genere. Di fatto l’effetto di questo film fu enorme.
La vicenda si snoda intorno a una delle due paure recondite dell’uomo: non a quella della morte, ma a quella della perdita dell’identità. Non poteva che essere così: quale altro modo avrebbe avuto Neil Jordan – sempre in cerca di definizioni e ridefinizioni delle nostre identità – di occuparsi di horror se non attraverso i vampiri ? Il vampiro ci morde, ci succhia del sangue e non ci uccide necessariamente, ma il suo morso sancisce senza speranza la perdita della nostra identità. Non essere mai più quel che si era significa un po’ morire a se stessi.
Qui assistiamo alla vicenda di due quasi immortali. E proprio l’impossibilità di morire, o di tornare umani, costituisce la forza e la natura di questo racconto ma forse ne è anche il limite. Si tratta infatti di una guerra tra i due personaggi e di ognuno dei due nei confronti della propria condizione esistenziale. Un conflitto ultimativo che però in realtà non può risolversi. Il lavoro di Neil Jordan è fantastico. Ne ha fatto un finissimo lavoro d’immagine, mai solo estetico ma denso di valore come sempre. Però…
Però un conflitto sta in piedi quando è necessario ed equilibrato. Se non è necessario la questione si risolve senza confliggere, se non è equilibrato si chiude subito in favore del più forte. Il problema – meraviglioso – è: che senso ha la vita se non sei più tu, se non puoi più avere relazioni, se non puoi più morire ? Che senso hanno le donne più belle se non ti piacciono più, i sapori più raffinati se non li avverti ? Solleva – dietro il gioco dei vampiri – qualcosa di tremendamente concreto e autentico. Che senso ha vivere senza se stessi, anche non essendo vampiri ?
Se tutto il mondo è per te (se è così) la tua libertà migliore è quella di riceverlo, di rispondere a questo regalo di qualche anno che è questa vita con queste relazioni e questa natura. Tolta la possibilità di rispondere alla vita vivendola, la mera sussistenza biologica non ha alcun senso. Ovvio che il tema possa acquisire significato solo e lo spettatore fa tanto di spostarlo dall’alveo della metafora e se lo riconduce in qualche modo a sé e alla propria interiorità.
Un film sulla solitudine, intenso nelle svolte ma mai sufficientemente teso. Perché la tensione arriva solo dall’equilibrio e dalla necessità dei conflitti. Oltre a non essere risolvibile il conflitto fra i due vampiri, Brad Pitt e Tom Cruise, non è nemmeno risolvibile il conflitto fra ognuno di loro e la propria vita. Possono eventualmente darsi la morte – operazione comunque complessa data la loro resistenza a tutto, ma non possono uscirne vincitori e il rigore della vicenda impedisce di pensare a soluzioni con maghetti dell’ultimo minuto che aggiustano l’inaggiustabile.
Ne consegue un’occasione di cinema secondo me parzialmente mancata. Perché forse in questa chiave si sarebbe potuto interpretare il film come una tragedia greca, con un senso del fato e dell’ineluttabile, senza cioè credere formalmente così tanto alle schermaglie dei due vampiri, ma mostrando il tempo infinito che si stendeva e si stenderà sopra di loro per sempre. Mostrando il vuoto della vita vissuta senza vivere, forse lavorando sui silenzi e sulla sottrazione anziché sull’aggiunta progressiva degli effetti e degli stacchi.
Ma una cosa sulla quale insisto molto con i miei allievi è che ascoltare è già riscrivere dentro di noi. E’ inevitabile quindi che il film di Neil Jordan dentro di me sia diventato un altro film. Forse è proprio un punto a favore, non un limite. Di certo questo è un regista che non ti consente mai riflessioni ed emozioni di superficie. E’ un coraggioso, che crede nei film che fa indipendentemente dall’appeal che possono avere. Torno quindi a riflettere tra me e me sul nesso che c’è tra la vita di tutti i giorni e la metafora ferita di questo racconto…
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