Questo via… questo via… questo via… ah no aspetta: forse questo no, mettilo lì che poi vediamo. Questo è il documentario di quel ragazzo, lo dovevo vedere… 2004. Non mi ricordavo nemmeno della sua esistenza. Bello stronzo che sono. Questo è il dvd che dovevano venire a prendersi, ma sono passati più di tre anni e potrei essere morto. Ah ecco qua: le bollette che catalogavo, adesso è tutto on line, verranno a contestarmi qualcosa dopo sei anni? Butta.

Qui invece sono tutti appunti, fai un po’ vedere. Questi sono per quei due spettacoli al Portaromana. Due malloppi incredibili. Due spettacoli di dieci anni fa, con i miei mitici “tossici”. Non ci sono più alcuni degli attori, non c’è nemmeno più il teatro, come dire, per togliersi ogni dubbio. Via. I progetti, vediamo un po’. Questo ci sono stato dietro ma sapevo che non ci credevo. Via. Quest’altro avevo insistito un po’ per farlo, qui credevo di crederci, per citare l’antennista. Ma oggi se mi guardassi da fuori nemmeno io concederei fiducia a quel giovane regista che chiaramente non sapeva quel che voleva. Via. Qui invece il progetto di un gruppo che avrebbe voluto… non c’erano abbastanza soldi. Via. Tutti ponti a metà.

Ah stupendo, questa è la carta intestata. Giovannicovini Filmaker. Una spesa intorno ai 180 euro se non ricordo male. Tipo cinque anni fa. Forse l’ho usata tre volte ed è sempre stata inutile. Altra idea geniale, questa della carta intestata per un filmaker. Se non fai pubblicità, se lavori solo occasionalmente con i filmati aziendali, se sei fuori da qualsiasi giro commerciale e sempre inadeguato a entrarci, che cavolo ti stampi una carta intestata? Ma sono tanti fogli e sono tutti bianchi da una parte: questi li porto a casa, che servono per appunti e stampate provvisorie. Dalla situazione deduco che la cosa più utile di un foglio con il mio nome stampato è il retro. La seconda è che se un foglio ha un lato utile io scelgo sempre l’altro.

Spartiti. Perché li ho tenuti questi qui? Cioè, come potevo pensare di tornare a suonare Bach se avevo venduto il pianoforte? Non entriamo nella questione dell’averlo venduto, ma dal momento che l’hai fatto – dico – procedi con quel minimo di coerenza che adesso ti darebbe meno lavoro e più spazio. Niente, avevo tenuto anche quelli, forse immaginando un futuro in strada con pianola. In realtà lo so: erano della zia Angela. La zia che mi ha messo le mani sul pianoforte, devo a lei la mia breve esperienza in Conservatorio. Ma adesso la zia è morta da più di trent’anni, secondo me posso lasciarla andare. Ah questa sì invece: questa la amo davvero, mi emoziona quando la guardo. La foto del faro. Un regalo di Giada. Questa in ogni caso me la porto via perché magari il progetto di avere di nuovo un metro lineare su un muro per appenderla è proporzionato al senso della realtà. E da dopo i lavori che ho fatto nello studio, non l’ho mai più riappesa perché tolsero uno dei due chiodi che la reggevano. Nemmeno la cura di piantare un chiodo e rimettere su una foto che adoro. Secondo me ero troppo impegnato a pensare a cosa scrivere sulla mia carta intestata.

A completare l’immagine del disastro post atomico ogni tanto spuntano delle cartelline. Sono situazioni contabili relative al condominio dello studio. E sono ordinatissime, curatissime, chiarissime. Una scrittura minuscola e certosina spiega per filo e per segno che cosa siano. Ecco, quello è il passaggio di mio padre nella storia di questo studio. L’amorevole e vano tentativo di orientare la mia mente verso l’ambiente e di renderla per lo meno orientata. Sono situazioni contabili superate e antiche: via. Anche se mi dispiace perché contengono qualcosa che non è nei numeri.

Durante gli anni di questo studio quanti lavori ho fatto? Pochi, soprattutto rispetto a quelli pensati e progettati. Ci sono copie delle mie sceneggiature, copie di quelle di Sabrina, altre sceneggiature, versioni provvisorie, versioni definitive, versioni irreversibili. Via tutto. Però aspetta, perché se ripenso ai lavori di questi anni i migliori sono quelli che non avevo progettato. Insomma non c’è limite al peggio: le uniche cose che mi sono davvero riuscite sono quelle sulle quali sono stato chiamato da fuori. Direi di più: meno soldi c’erano e più sono riuscite. O è karma o è una patologia.

In effetti se penso a Le ferite dell’Eroe non è diverso. E’ nato perché una notte ho pensato che sarei morto presto e che volevo lasciare ai miei figli almeno una traccia di quello di cui mi ero occupato nella vita. Tutto qui. Quando ho iniziato a scriverlo, l’idea di un libro era semplicemente fuori discussione. Anche lì, un progetto senza soldi e senza futuro che poi ha trovato due gambe e ha camminato. Boh.

Alla fine gli spazi si aprono. Piastrelle che tornano a vedersi, luce. Lo smaltimento di me stesso è un’operazione lunga ma si può fare. Nella carta quasi tutti i progetti falliti, abortiti, eseguiti con successo ma ormai trascorsi. Nel sacco nero tutti i dvd, purché non in grandi quantità. Nella plastica tutti i foderi dei vhs, dei super vhs, dei dvd, delle audio cassette. Una marea di roba. Penso che la terra abbia sempre un grande fardello nello smaltire ogni uomo con la sua storia. E questo è solo un piano della cosa. Ma chi smaltirà le delusioni che uno dà? Chi smaltisce le scortesie? Se tutta quella carta sono i progetti finiti, quante sono state le parole dette a voce per costruirli? Chi smaltirà tutto il tempo che abbiamo fatto perdere alla gente? E le riserve di pazienza altrui che abbiamo eroso?

Apro le finestre, lo studio è quasi vuoto. Verranno a prendere i mobili. Respiro e guardo questo vuoto. E penso del tutto irrazionalmente: bene, ora si comincia.

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