La storia polarizza i suoi personaggi, cominciamo ad entrare nella parzialità e nella forza dei punti di vista abbandonando quello neutrale del coro. E il film riprende dalla casa di Bernard vista dai vicini. Il bambino attraversa lo spazio lasciando la mamma sulla soglia. Aspettami, Thomas – gli fa lei rimanendo ferma. E’ quel che farà nel corso del film. C’è un bambino in Bernard, un uomo istintivo e irrisolto che lei vedrà partire proprio in quella direzione. E quel bambino vuole la moglie di quel vicino. Così ora suo figlio con anticipo quasi esoterico contribuisce a mettere a posto i bagagli e non entra in casa dalla stessa parte dell’adulto. Entra dal retro. Come un esploratore. Come un ladro.
Panoramica e dolly ci portano adesso da Thomas che sta suonando il pianoforte ai suoi genitori oltre la porta d’ingresso che lo cercano. Per il bambino che c’è in Bernard questa casa è la casa della musica e come suo figlio, così lui suonerà un pianoforte che non ha mai imparato a suonare: quello della storia d’amore con Mathilde. Non ne uscirà musica ma una serie di suoni inconclusi. Anche la casa dei vicini ci si mostra come un labirinto d’interni borghesi. Passiamo con morbidezza da Thomas che suona all’uscio di casa attraversando bagagli e quinte fatte di muri e di scale.
Le relazioni tra i tre personaggi sono inesistenti, fatte solo di cortesia. Niente a che vedere con il cuore. Eccoli là, sull’uscio, incastrati tra la diagonale delle scale e i muri. Appiccicati e piccoli piccoli. Giusto così, perché Truffaut ci sta dicendo che questi rapporti sono solo case e cortesie, sono rapporti senza sguardi e senza cuore. Adesso, il capolavoro di questo punto del fraseggio. Inizia il gioco delle appartenenze vere, quelle non dette e forse nemmeno capite.
Come uomini e mariti, i due maschi hanno i pantaloni uguali. Come marito e moglie, Bernard ha il maglione dello stesso colore della giacca di lei. Come affinità di cuore – fedeli ma noiosi e spenti – la moglie di Bernard ha la gonna dello stesso colore del maglione del marito di Mathilde. Appartenenze, dicevo. Anche di spazio. Inizialmente Bernard è da solo a destra macchina, quintato dalla scala. Gli altri due li vediamo a sinistra macchina, davanti a noi senza filtri. Non c’è ombra in loro, sono chiari. Lui no, lui non è quello che appare, ha dentro qualcosa, sta dietro a qualcosa, si nasconde e nemmeno lo sa.
Ora il big moment. Scende lei, di spalle. Mathilde. E già Bernard scappa a sinistra macchina ricomponendo la coppia con sua moglie. Bernard ha già capito. Forse l’ha intravista sulle scale, forse ne riconosce il passo. E’ girato verso casa sua, la guarda fuori dalla finestra, accigliato mani in tasca. Ma lei arriva e lui non la può evitare. Un ingresso da vera star, con tanto di tacchi. Ma imbalsamata in un sobrio vestito grigio. E’ la condizione in cui si trova Mathilde nella sua vita. Eccoli davanti a noi: totalino borghese in un interno.
Ora, l’incontro. E in questo incontro esistono solo loro. Anzi, solo lei. Il suo sguardo dritto e coinvolgente, magnetico fin dall’inizio. Dritto per noi. Gli altri sono fuori. Oltre lei, la divisione netta in due mondi e due tempi della sua vita, la vediamo sul confine tra muro e luce rispetto al quale lei si trova esattamente a metà. Bernard si presenta dopo un tempo di pausa infinito. E lei risponde. Hanno già pattutito una tattica, si sono già detti tutto quello che si dovevano dire senza parlare. Loro sono vivi. Ma per Truffaut vivere è debordare di passione e per lui eros è piantato con tutte le radici in thanatos.
Va avanti, spengo io – dice Bernard alla moglie. Li aspettiamo al piano di sopra. Nei piani di sotto stanno gli istinti e le passioni. I sotterranei e la terra nel cinema spesso rimandano a questo. Ora è con la moglie, risale, fa appello alla sua volontà e a ciò che vuole l’altra parte di lui: mantenere la sua famiglia e il suo affetto per la moglie. Ma già in questa battuta Bernard sta spegnendo la luce e sta evitando di farsi vedere in faccia. I giochi dei bambini per terra rimandano Bernard alla sua paternità, alla sua responsabilità. E in questa scena lui fa solo segno di parlare piano, dice che tocca a lui raccogliere i giochi… regole. Si sta solo rifugiando con ansia nelle regole che tengono ferma la sua vita. Mette ordine. Ma l’energia che usa Depardieu è fantastica: è un uomo nel panico e la moglie non vede niente.
I due genitori fanno i genitori. Controllano il sonno del bambino. Ma è solo un dovere per Bernard. Se no vedremmo il viso del bambino in primo piano. Se no vedremmo dolcezza. Invece la macchina se ne sta fuori, in attesa che lui esca. E i due se ne vanno in camera lasciandoci per un momento soli nel corridoio.
Mi fermo qui. Un blog non è il luogo per un’analisi prolungata oltre un certo limite. Ma era un mio desiderio condividere in questo piccolo spazio qualche minuto del cinema di François Truffaut.
Peccato davvero. Mi chiedo -visto che salveresti Truffaut dalla barca che affonda- quanto lo senti a pelle? Tutte queste cose le hai colte piano piano o le hai sentite subito tue? hai detto che ti ha colpito subito questo film, che ti ha mosso qualcosa seppur la situazione fosse lontana da te, questione di stomaco?
Ah, dimenticavo, bellissima analisi.
Caro Antonio, grazie per aver seguito fin qui. Le cose.. si chiamano da sole. Dalla prima volta che ho visto questo film sono passati 22 anni. Rispetto a quel Giovanni siamo due persone diverse. Ho sentito subito qualcosa. E negli anni le cose hanno conquistato un nome. gio.
Caro Giò, (e caro Antonio),
io ho avuto la fortuna di conoscere “quel Giovanni” di 22 anni fa, forse diverso da oggi, ma così naturalmente talentuoso da saper cogliere frequenze per me allora irraggiungibili.
Ricordo ancora con affetto i suoi primi passi nell’analisi dei film, quei pomeriggi davanti ad un VHS con le registrazioni di Fuori Orario (un mondo paleolitico, se visto con gli occhi di oggi!), in cui ho compreso la grandezza dell’artista Covini, ed ho subito la fascinazione per il Cinema d’autore.
Questi spunti sul suo Blog sembrano il remake moderno di quei pomeriggi, e ringrazio l’amico Giò per avermene ricordato il sapore…!
Ste
Uh! Stefano che bello che passi di qui… Grazie per le tue parole. E allora ricambio l’amarcord. Una delle ultime sgridate dei miei genitori. Si arrabbiarono davvero perché un sabato tornai alle 2.30 del mattino e non era in quel momento un orario propriamente concordato. Fu faticoso spiegargli che mi trovavo sotto casa in macchina con te che mi spiegavi come il tempo in fisica potesse essere considerato la quarta dimensione dello spazio. Ma in tutta onestà: era una storia credibile ? No. E nemmeno quella che tentavi di farmi capire quella notte. Ogni tanto me la rigiro ancora sai? Ma com’è che il tempo… poi mi arrendo. Quella parte del cervello non ce l’ho. Ti abbraccio forte. gio.
Grazie a te per il flashback, di valore inestimabile!
Anche lo Stefano di oggi è una persona diversa da quella di 20 anni fa, ma la passione per (tutte) le “quarte dimensioni” non è scemata …
Un abbraccio forte!
Ste